Qui la prima parte dell’articolo!

“Se ascoltiamo qualcosa di interessante, cerchiamo di assorbirla.” (Marko Halanevych)

Nel 2010 i DakhaBrakha pubblicano il terzo album, quello in cui il loro suono viene rivoluzionato: Light. Già dal titolo si intuisce che la formula dei primi dischi non sarà riproposta uguale a sé stessa; compaiono anche i primi brani con titoli e brevi inserti di parole inglesi nel testo. Senza rinunciare alla cifra degli esordi, i quattro allargano la loro sfera di influenza alla modernità e all’Occidente. Nel caos etnico, tra sentori d’Africa e di brughiera russa, fanno capolino consistenti richiami al jazz, al soul e persino all’hip hop (Carpathian Rap), che la band incorpora nelle proprie composizioni con una naturalezza irreale. In Light tutto è nuovo, ma rispetto alle produzioni precedenti tutto sembra coerente e, anzi, consequenziale: diventa quasi inevitabile vedere il disco come l’approdo naturale per una band sempre alla ricerca di nuove sfide.

Light è una novità anche per come è stato pubblicato: per la prima volta i DakhaBrakha decidono di non affidarsi a una casa discografica e puntano sull’autoproduzione (la stessa formula verrà scelta per i successivi The Road e Alambari). Nelle canzoni del disco compaiono anche le prime concessioni alla modernità in fatto di strumenti: la chitarra elettrica di Baby, qualche ritocco digitale, qualche campionamento. Non è l’inizio di un cambio di paradigma: anche nella seconda parte della carriera, i DakhaBrakha continueranno a suonare prevalentemente in acustico.

L’eccezione più significativa è The Khmeleva Project, pubblicato nel 2012 da ArtPole. È un album composto e suonato insieme al trio bielorusso Port Mone, altra interessante esperienza di innesto di musiche tradizionali su sonorità contemporanee: il disco è caratterizzato dall’uso di beat elettronici e da una vena sperimentale il cui esito è più simile alle novità introdotte in Light che al folk brutale dei primi due dischi.

A parte la parentesi Khmeleva Project, ci vogliono sei anni perché i DrakhaBrakha diano alle stampe un nuovo album. In mezzo ci sono la crisi ucraina e la guerra del Donbass: una vicenda che per un certo tempo è stata sotto i riflettori dei media occidentali (e c’è stato un momento in cui sembrava potesse degenerare in un conflitto molto più vasto e catastrofico), ma che da anni, nonostante i suoi lunghi e dolorosi strascichi, è finita ai margini della nostra visuale.

Grazie a Light, i DakhaBrakha guadagnano notorietà fuori dai confini nazionali; a partire dal 2013 diventano sempre più richiesti in Europa e soprattutto in Nord America. Portano a termine diverse tournée mondiali, che li portano a suonare in ogni angolo del pianeta; in festival del calibro di Glastonbury, WOMADSziget, Bonnaroo (nel 2014: “best breakout performance” secondo Rolling Stone) e in luoghi più sofisticati come il Kennedy Center di Washington. Dopo lo scoppio della guerra, i quattro approfittano della visibilità ottenuta per sostenere pubblicamente la causa del governo di Kyiv.

Nei finali dei loro concerti diventa frequente vederli mostrare al pubblico le bandiere giallo-blu e cartelli con scritte come “free Kremlin hostages” e “free Sentsov”*. In generale, la band ha dimostrato di possedere una coscienza politica molto forte e una notevole capacità critica nei confronti del proprio Paese: nelle interviste non è raro sentirli parlare della condizione femminile in Ucraina, dove la violenza domestica è diffusissima e il processo di emancipazione fatica ancora ad affermarsi, o della scarsa cultura musicale dei connazionali. Nei loro discorsi ricorre anche la questione della subalternità artistica dell’Ucraina rispetto alla Russia, quella per cui «Mosca ha dettato il gusto per anni e solo recentemente è diventato possibile essere popolari in Ucraina senza esserlo in Russia» (qui a parlare è Iryna Gorban, manager del gruppo).

Nel 2016 esce The Road, che nella pagina dedicata su Bandcamp viene presentato con queste parole:

«Questo album è stato creato in un momento molto difficile per la nostra madrepatria. Vogliamo dedicarlo a tutte le persone che hanno dato la vita per la nostra libertà, che continuano a vigilare su di essa, e di coloro che seguono il percorso impegnativo dell’uomo libero senza perdere la speranza.»

The Road è un album lungo, dilatato, più cupo e sofferto dei precedenti. Un filo rosso di inquietudine sembra cucito su tutte le tracce, come se nelle note si riverberassero gli echi del dolore portato dalla guerra civile; l’esuberanza delle voci sembra smorzarsi (in nessun altro loro disco succede così spesso di sentirli cantare a turno, in solitaria), lasciando il passo ad un raccoglimento che sa di penitenza, di meditazione.

Sulla genesi di questo disco, Halanevych ha raccontato che «abbiamo cercato più volte di scrivere, ma non eravamo ispirati. Per altre persone, la rivoluzione nel proprio Paese o nella propria città è fonte di ispirazione, per noi è il contrario. Poi Vlad ci ha consigliato di prendere canzoni di diverse parti dell’Ucraina, e così unire l’Ucraina nel nostro disco». Ancora una volta, la figura di Troitsky risulta centrale nella crescita della band e nella scelta dei percorsi da intraprendere; fatto salvo il contesto del tutto diverso, possiamo immaginarlo come una sorta di George Martin, un “quinto Beatle” che non sale sul palco e non suona nessuno strumento, ma il cui contributo dietro le quinte è decisivo. «Il nostro consigliere e guida spirituale» lo definisce Halanevych.

The Road dimostra ancora una volta la capacità dei DakhaBrakha di rinnovarsi costantemente: l’irruenza caratteristica di Yahudki compare solo a tratti e l’uso degli strumenti (in particolare delle percussioni) è più riflessivo, più ragionato; al tempo stesso, la tavolozza di colori a disposizione dei quattro si è ampliata enormemente. Una varietà sempre maggiore di influenze differenti converge nella loro musica, e ciò che li rende unici è la facilità con cui riescono a dare a tutto ciò che suonano un’impronta che è 100% DakhaBrakha.

A marzo del 2020 esce il sesto album della band, Alambari. Il titolo non è altro che il nome della località brasiliana in cui è stato registrato; in poco più di un’ora, i DakhaBrakha si confermano in stato di grazia e capaci di interpretare qualunque genere, passando da un tango in salsa slava (Khyma) al gospel (Dostochka) e a brani dall’atmosfera tipicamente balcanica (Lado). I ritmi sono più serrati rispetto a The Road e la composizione, come sempre di altissima qualità, può essere considerata una sorta di riassunto del cammino percorso sinora dalla band: Alambari somiglia a tutti i loro dischi precedenti e a nessuno in particolare.

L’abilità nell’assimilare all’interno del proprio stile musiche di ogni latitudine e di ogni epoca raggiunge il suo culmine, come testimoniato dalla loro prima canzone in lingua tedesca (!), Im tanzen Liebe. È un brano dal ritmo ipnotico, venato di soul music, che si lascia apprezzare veramente solo dopo qualche ascolto, e il cui cantato ripresenta un loro tipico schema: Halanevych, in veste di solista, scandisce le strofe con un convincente talk; Tsybulska e Kovalenko armonizzano su un ritornello irresistibile, giocato su due accordi sempre uguali; il crescendo si trasforma in un’esplosione quando Garenetska si inserisce nel coro con un intermezzo breve e prepotente, seguito da una dissolvenza di voci come stelle filanti, luci che si perdono nella notte.

Ad ogni nuovo disco, l’arte dei DrakhaBrakha costruisce ponti tra i continenti, connettendo tradizioni musicali di ogni tempo, di ogni parte del mondo; il recupero del repertorio folk e la sua riproposizione in chiave moderna fanno parte di un unico processo che rifiuta il concetto di crescita lineare tipico della nostra era, un ciclo vitale di assimilazione e restituzione che forse è l’unica strada per salvare la cultura dall’oblio. Nel 2015, durante la prima delle loro tre performance alla KEXP, il conduttore li interroga sul significato del nome del gruppo. «Oh, è facile» risponde Halanevych, sornione. «È ucraino antico. Vuol dire “dare e prendere”.»

* Oleg Sentsov, regista e scrittore ucraino. Arrestato dopo l’annessione russa della Crimea, nel 2015 viene condannato a 20 anni per terrorismo; rilasciato nel settembre 2019 dopo l’accordo tra Russia e Ucraina per lo scambio di 35 prigionieri per parte.

Le immagini compaiono per gentile concessione della band. Foto di copertina: Vitaly Vorobyov. Foto dell’articolo: 1) Vitaly Yurasow 2) Andriy Petryna 3) www.dakhabrakha.com.ua/ 4) Andriy Petryna

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Nato nel 1984, vive a Sant'Antioco (Sardegna sud-occidentale). Bibliotecario, scrittore e redattore; nel 2017 ha vinto la VI edizione del premio letterario RAI "La Giara"; ha pubblicato i romanzi "Il Grande Erik" (Rai Eri, 2018) e "Le case del sonno" (Edizioni La Gru, 2019), più la raccolta di racconti "Storie dei padri" (2019, autopubblicazione) e il racconto breve "Il giardino" (Libero Marzetto Editore, 2021). Ama la fantascienza distopica, il garage rock, i fumetti.

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