Bene, iniziamo con un grande classico: chi è Matteo? Ti va di presentarti ai lettori del Malpensante?

Aloha, comincio col presentarmi. Sono Matteo Bergami aka Dumas, non come lo scrittore ma bensì come un ex giocatore NBA degli anni ’90. Sono nato e cresciuto a Bologna eccetto una parentesi di 10 anni vissuti nella provincia Emiliana. Scatto foto da tanti anni, ma solo nell’ultimo periodo ho preso una vera e propria coscienza di quel che faccio grazie ad un percorso di studi con maestri del calibro di Fulvio Bugani agli inizi, e poi con Giulio Di Meo, con cui collaboro di tanto in tanto per la rivista Witness Journal.

Da quanto si evince dalle tue foto, la tua “arena” è la strada: perchè proprio questa scelta? Quali “armi” scegli per raccontarla? Analogico o digitale? Perché? E su quali canali finisce questa tua narrazione?

Mi piace la street perché secondo me è un non genere, è molto vicino alla fotografia di reportage e anche a quella sociale, generi a cui sono molto appassionato. La street è l’attimo in cui come un regista immaginario muovo i personaggi all’interno del frame, ma è anche creatività, attesa e contesto. Sono tutte caratteristiche che cerco di trasportare nei miei scatti.

Leggere gli spazi è fondamentale, e con la mia macchina entro in modalità zen e tento di scovare ciò che cerco in profondità. Come dice Turetta, “Senza meraviglia non c’è bellezza”, è necessario provare a meravigliarsi della semplicità, anche del banale. Bisogna farlo con costanza, curiosità, cultura, e con umiltà andare avanti. Scatto in digitale perché ho iniziato coi rullini ma per pigrizia e perché sono legato sentimentalmente alla mia prima macchina non ho ancora avuto il coraggio di sostituirla. Mi considero un fotografo abbastanza attivo e una parte delle foto va sul canale Instagram, sul profilo Fb e sul mio sito. Utilizzo la macchina digitale per i lavori organizzati, il cellulare per ilavorisporchi.

Senza dubbio una parte finisce sui tuoi canali instagram, 2, opportunamente differenziati. In particolar modo vorrei chiederti di raccontarci dei tuoi “lavori sporchi”. Potremmo quasi dire che il tuo secondo profilo è a tutti gli effetti una serie. Ti va di parlarcene? E poi, parlando della serie, è il tuo un #profiloseriale?

Da Instagram ho preso lo spunto per creare il profilo ilavorisporchi. Questo tipo di account lo possiamo tranquillamente inserire nei profili seriali, ed è nato dall’esigenza di pubblicare una sequenza di scatti di cui molti sono stati realizzati in passato. Molti di questi hanno preso forma durante il mio lavoro che mi permette di essere in posti non convenzionali e anche ad altezze non ordinarie. Queste foto sono fatte esclusivamente col cellulare, mezzo che al giorno d’oggi è un buon compromesso. Gli scatti sono in bianco e nero, sebbene io ami il colore e penso sia uno dei miei tratti caratteristici. Il bianco e nero riesce a dare più risalto all’essenzialità e all’ armonia che esiste dietro le quinte dei miei lavorisporchi. Che è sì un profilo seriale, ma anche un diario delle mie giornate.

Cosa ne pensi di questa “moda” dei profili seriali che si sono diffusi su internet?

Sicuramente anche io mi infilo in questa categoria, che all’inizio era underground ma che ora che sta diventando davvero folta, molti di questi li seguo e trovo la cosa molto interessante e piena di spunti. Bisogna cercare di non cadere nel banale ma vedo tanta creativitá. Ci sono profili dediti alle rose come alle suore o ai carrelli della spesa. L’obiettivo è esprimersi in qualche modo. Alcuni di questi #profiliseriali non hanno una logica apparente, ma in fondo è il loro bello.

In particolar modo, a seguito del lockdown sono aumentate a dismisura le pagine di mascherine abbandonate. Un tuo parere al riguardo?

Sì, ho notato anche io questi nuovi profili, ma nell’ultimo periodo la gente sta molto di più sui social anche a causa di quello che stiamo vivendo, la mascherina sta diventando un oggetto di uso comune e ci stiamo abituando a questo e la stiamo guardando sotto un’altra visuale.

Tornando al tuo profilo personale, si nota che molte delle foto sono scattate a Bologna. Come è stato vedere Bologna, città notoriamente “viva”, trasformarsi a causa della quarantena tra restrizioni e spazi che vengono chiusi?

Anche Bologna ha subito un duro colpo a causa di questa pandemia e, da città viva e piena di turisti, si è svuotata di colpo. Ci siamo dovuti riadattare, io per primo, abituato a spostamenti continui per lavoro e per i miei viaggi, nella totale inconsapevolezza della mia e della nostra libertà mi sono allineato a queste situazioni esplorando nuovi contesti. Come la città, mi sono trovato costretto a destrutturare le mie prospettive per ridimensionarle. La costruzione di immagini plasma nuovi movimenti e ridefinisce il concetto di libertà. La volontà di agire resiste, lo spazio crolla ed anche un respiro, quanto di più scontato, soffoca. Ché di scontato non c’è nulla, tantomeno la libertà. Lentamente ci stiamo conformando a questo modo di vivere e come specie ci stiamo adattando, sono fiducioso nel futuro.

Restando sulla città: alcune tue foto sono state fatte in una palestra popolare, mi accennavi di avere un progetto con le “staffette” bolognesi. Ti va di parlarcene? Sempre su questa tematica: immagino che l’appartenenza a certi contesti porti con sé una certa scelta politica. Credi che la fotografia possa essere politica?

Nell’ultimo anno si è consolidato il mio rapporto con la Bolognina Boxe. Questa fascinazione per la boxe è nato quasi per caso, perché durante il lockdown cercavo nuovi stimoli e Alessandro Danè mi ha dato la possibilità di seguire una serie di incontri, che sono stati fatti nel pieno rispetto delle norme e soprattutto a porte chiuse. L’ambiente sportivo mi è sempre piaciuto e mi trovo a mio agio, i ragazzi della palestra sono persone eccezionali e ultimamente stanno ottenendo ottimi risultati. Qui, da ex cestista, mi metto alla ricerca anche di quelle emozioni che questo sport riesce a trasmettere. Lavoro nelle pause degli attimi decisivi e farlo mi piace davvero molto.

La fotografia deve creare delle domande e rappresentare quello che succede. Le tematiche che affronto sono temi per me sensibili e non guardo la bandiera politica. Sono argomenti di nicchia e di cui i media nazionali non parlano, nel mio piccolo cerco di far sentire queste voci con le mie fotografie. Ultimamente sto seguendo le manifestazioni a Bologna cercando di rappresentare i fatti destrutturando la logica fotogiornalistica.

Stai lavorando a qualche altro progetto fotografico di cui vorresti parlarci?

Atualmente, insieme a Margherita Caprilli e Sukenya Ouled, due fotografe di grande talento, sto seguendo le Staffette Solidali, un progetto che si rivolge alle persone senza fissa dimora. Un percorso di formazione importante sia dal punto di vista fotografico che umano. Gli attivist* di Làbas (un collettivo politico attivo dal 2012 che si muove nei luoghi dove queste persone vivono), dopo aver dato un kit di primo soccorso, viveri e magari anche coperte o vestiti, li invitano ad accedere nel proprio centro, dove possono avere libero accesso alle visite mediche, supporto o anche solo caricare la batteria del cellulare. Gli spazi del quartiere di Salute Popolare si pongono come unica finestra sul mondo, unica opportunità per praticare l’incontro solidale, per fare rete e ricevere supporto.

Hai qualche fotografo di riferimento o a cui ti ispiri? C’è qualche fotografo con cui vorresti lavorare a qualche progetto? Appartieni a qualche scena o movimento fotografico? Credi esista una scena fotografica?

I miei fotografi di riferimento sono i grandi di questa arte: Capa, Fusco, Gilden, Webb, Parr, Koudelka, Migliori. I nomi sarebbero davvero tanti, la scena è davvero viva ed è un’ancora di salvezza per tanti, me per primo. Menzione d’onore per le produzioni del collettivo Cesura, che con Realpolitik con Il corpo del capitano han fatto dei lavori davvero meritevoli.

Non penso di appartenere ad un movimento specifico, ma ultimamente mi piacerebbe spingermi verso il reportage. Ho appena partecipato a BestSelected, un libro ideato da Vanni Pandolfi in cui, insieme ad altri fotografi italiani, raccontiamo di questo 2020 terribile. Abbiamo continuato ad esprimerci e a testimoniare questi tempi paradossali dando più importanza a quello che abbiamo vicino.

Per concludere prima di salutarci ti lascio la sezione aperta. C’è qualcosa di cui vorresti parlare che ho saltato nell’intervista? Hai qualche messaggio per qualcuno? Vai…

Intanto volevo ringraziarti per il tempo concesso. In futuro ho un paio di progetti in lavorazione, di cui uno legato alla Boxe e l’altro, appena si potrà viaggiare in sicurezza, poi a breve uscirà il lavoro con le Staffette Solidali. Ora collaboro con il lato B di Bologna, Bologna da un altro punto di vista. Stay tuned!

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