Iniziamo con le domande molto classiche: chi è Luana? Come si è avvicinata alla fotografia? Leggo dalla tua biografia che hai studiato ingegneria civile per poi appassionarti all’interazione tra l’uomo e l’ambiente. Potremmo dire che in qualche modo hai continuato il percorso di studi affrontandolo da un punto di vista più umanistico. Come nasce questa passione?

Quando mi chiedono chi sono, e anche da dove vengo, inizio a tremare un po’, non perché non sappia cosa rispondere ma perché temo sempre di essere troppo asciutta per rispondere ad una domanda del genere. Prima di tutto tengo a specificare che sono nata e cresciuta in un piccolo paese sulle colline emiliane, ma sono fiera del fatto che mia mamma sia siciliana, e quindi sono maturata con questa dualità, da una parte il nord e l’Emilia e dall’altra parte il sud e la Sicilia. Sono cresciuta con questo “fardello”, e dico fardello perché 30 anni fa, nel ricco nord, soprattutto nei paesi di provincia c’era un po’ di ostilità verso le persone del sud Italia, come può essere purtroppo ora l’ostilità verso gli stranieri. E questa cosa ha segnato la mia infanzia, non proprio sulla mia pelle (mi sono “salvata” per il fatto di essere metà emiliana), ma ha aperto dentro di me una certa avversione verso questi comportamenti ottusi e di odio ingiustificato per il “diverso”. Un’altra cosa legata alla mia infanzia sono le tonalità calde, la luce estiva, e il calore del sud. E la malinconia per tutto questo, che ho sempre riscontrato nella persona di mia madre, e per osmosi in me stessa. Queste due cose, la malinconia e il ripudio dell’odio e del “razzismo” (in tutte le sue forme) sono due cose che mi porto dietro da bambina e che sto riscontrando essere presenti nella mia ricerca fotografica.

Sono laureata in ingegneria civile e ho anche esercitato la professione per alcuni anni, ma ho sempre saputo che quello non era il lavoro per me. Già alle scuole medie avevo timidi accenni verso l’arte, e mi ricordo le lotte con mia mamma per iscrivermi al Liceo Artistico. Purtroppo ha vinto lei, e così ho affrontato un lungo ciclo di studi scientifici, prima al liceo e poi all’università. Ma evidentemente qualcosa mi è rimasto dentro e così proprio all’ultimo anno di università, per una serie di cause favorevoli, ho comprato la mia prima macchina fotografica, e ho iniziato a fotografare. Vorrei raccontare questo piccolo aneddoto: in quarta elementare andai in gita con la scuola a Ravenna e mi ricordo che mia mamma mi diede la sua macchina fotografica analogica con un rullino dentro. Feci le mie prime foto in assoluto in quell’occasione, per lo più ai monumenti visitati. Mi ricordo che quando sono tornata mia mamma mi chiese che cosa avevo fotografato e io appunto risposi i monumenti di Ravenna, e mi disse: “ma come, non hai fotografato i tuoi amici?”, e non mi sviluppò mai il rullino. E’ rimasto lì nel cassetto non sviluppato per tempo. Ogni tanto guardo ancora lì dentro per vedere se lo trovo, ma non c’è più. Quelle sono state le mie prime foto, non so quanto pagherei per vederle, ma nessuno potrà mai farlo.

Fotograficamente mi piace esplorare le interazioni tra uomo e paesaggio, ma anche molto temi storici. Penso che i miei studi di ingegneria siano stati molto utili per studiare il paesaggio, sia per avere una percezione dell’uomo dentro il paesaggio, sia per analizzare in modo scientifico come l’uomo interviene su di esso. Inoltre i miei studi di geologia penso siano stati molto utili per capire molte cose in questo senso, oltre che rafforzare il mio interesse per un certo tipo di paesaggio, come quello vulcanico. Gli studi scientifici sicuramente mi hanno lasciato il metodo, di ricerca e di documentazione, e di verifica di tutto quello che decido di trattare. Non faccio più l’ingegnere, ma penso che molte cose del mio modo di procedere siano collegati ai miei studi, motivo per cui non sono poi così pentita del mio percorso.

Come preferisci fotografare: analogico o digitale? E quali sono i canali a cui affidi le tue fotografie?

Scatto sempre in digitale. Agli inizi ho scattato qualche rullino in analogico, ma purtroppo sono figlia della tecnologia moderna, e quindi sono rimasta sul digitale. Non sono neanche troppo legata al mezzo. Non penso che la mia fotografia abbia meno valore perché in digitale. L’importante è il contenuto, non il mezzo. Inoltre, oltre ai miei progetti personali, faccio anche lavori commerciali e questi sarebbero difficilmente gestibili con l’analogico, ora come ora e con i tempi super-veloci richiesti. Quando finisco un progetto in genere propongo il mio lavoro a riviste di settore. Condivido qualche foto sul mio sito e nei miei social. Cerco di promuovere il lavoro in concorsi e open call di festival. Inoltre amo fare mostre direttamente nel luogo interessato dal mio progetto, per far vedere alle persone del luogo e coinvolte il prodotto della mia ricerca.

Qual è stato il tuo primo lavoro? E l’ultimo?

Il primo lavoro di cui mi sento di parlare, e cioè ritengo abbia una certa maturità è Villarotta Cricket. E’ un lavoro fatto nel 2016 in cui ho ritratto una squadra di giovani ragazzi pakistani che giocano a cricket nel piazzale di cemento di una industria ormai in disuso nella campagna reggiana. Ho notato la loro presenza quando passavo in macchina nella strada che corre lungo il piazzale. Sono rimasta prima di tutto affascinata dal luogo, dai vecchi scheletri parecchio scenografici dell’industria abbandonata, e passando mi chiedevo come mai quei ragazzi facessero sport proprio lì. Un giorno non ne potevo più della mia curiosità e mi sono messa a cercare sul web qualche notizia riguardante quello sport nella bassa reggiana e ho trovato incredibilmente una pagina Facebook che si chiamava proprio Villarotta cricket. Dopo qualche indagine ho capito che si trattava proprio dei ragazzi che giocavano in quel piazzale e ho mandato loro un messaggio. Dopo un po’ ho ricevuto la loro risposta e mi invitavano ad andare nel loro “campo”. E’ iniziata così una bella amicizia e ho passato alcuni mesi a fotografarli in azione nel loro campo di ripiego. Infatti questi ragazzi giocavano lì perchè il Comune non gli ha mai concesso un campo vero in cui giocare. Speravo che con le mie foto si potesse muovere qualcosa, un certo interesse per fargli ottenere un campo in erba, ma purtroppo non ci sono stati miglioramenti. Sono comunque contenta di averci provato e aver fatto conoscere la loro storia.

L’ultimo progetto a cui ho lavorato invece si chiama L’isola degli arrusi e riguarda la storia di 45 catanesi che durante il fascismo sono stati confinati alle Tremiti, con la sola colpa di essere omosessuali. Del fascismo tutti ricordano la persecuzione contro gli Ebrei, ma spesso si dimentica che ci sono state altre persecuzioni minori (solo per il numero di persone coinvolte) come quella degli omosessuali e dei rom, con l’unico scopo di mantenere l’integrità della razza italiana. Ho fatto un’ampia ricerca per documentare i luoghi che frequentavano questi omosessuali a Catania prima del confino, alle Tremiti ho fotografato i luoghi di confino e all’archivio di stato ho recuperato tutti i documenti che riguardano la vita di queste 45 persone. Penso che sia importante far conoscere questo fatto perchè è un triste capitolo della nostra storia, successo in Italia solo 80 anni fa, ma in pochissimi sono al corrente di questo evento. Penso sia importante conoscere la storia in generale e soprattutto i suoi capitoli neri per non cadere più negli stessi errori.

Ho trattato questa storia che riguarda gli omosessuali di Catania, perchè in tutta Italia è stata la città più colpita da questo genere di persecuzione. In tutto il resto d’Italia ci sono stati altri arresti a danno degli omosessuali, ma per fortuna non si sono mai raggiunti i numeri e la ferocia che si è verificata a Catania.

Mi dicevi che alla base di ogni tuo lavoro c’è una vera ricerca, anche bibliografica, che in alcuni casi si concretizza nella nascita di altri progetti paralleli a quello principale. Ti va di parlarci della genesi dei tuoi progetti?

Quando penso o inizio un nuovo progetto in generale sono mossa da un profondo interesse personale per quella materia. Questo interesse personale può derivare dall’esperienza personale, per qualcosa che ho vissuto o mi è stato raccontato e che ha generato la mia curiosità, oppure è dovuto alle mie letture. Le mie letture non sono del tutto neutre, ma diciamo che sono pilotate anch’esse da un certo interesse per una certa tematica o un certo periodo storico. Ad esempio negli ultimi anni ho notato che nutro un forte interesse per la storia italiana della prima metà del ‘900. Inizialmente mi ci sono avvicinata per questioni architettoniche, mi interessava l’architettura razionalista. Da lì, cercando e ricercando notizie su questo aspetto, mi si è aperto un mondo e ho iniziato ad interessarmi anche adaltri aspetti storici riguardanti quel periodo, come ad esempio la storia degli arrusi di cui ho parlato sopra, oppure la storia della bonifica in Sardegna nella zona di Arborea, durante il fascismo. Ho in mente anche altri argomenti riguardanti il periodo. Se questo interesse andrà avanti, non escludo che tra qualche anno possa diventare un vero e proprio lavoro di ricerca fotografica sul ventennio fascista a 360 gradi.

Ci sono invece poi altri lavori che scaturiscono da un mio interesse più intimo, come può essere il mio lavoro su Linosa, a cui mi sono avvicinata fotograficamente per un bisogno personale dettato dall’amore per quell’isola.

Dunque altri progetti scaturiscono un vero e proprio rapporto d’amore con il territorio, come la tua “storia” con Linosa che emerge dalle fotografie che raccontano quest’isola. In particolar modo sono rimasto colpito dalla descrizione del progetto e di questi due estremi che caratterizzano gli abitanti: da un lato i giovani che vogliono andar via, dall’altro chi torna per abitarci. Tu come ti collochi in questa parentesi?

Appunto, come dicevo sopra, Linosa è una storia dettata da un mio bisogno più intimo, di amore con il posto. Frequento Linosa da turista da quasi 10 anni, e i primi anni ovviamente come tutti l’ho frequentata nei mesi estivi. Piano piano ho conosciuto gli isolani, e ho ascoltato le loro storie, delle difficoltà di vita quotidiana soprattutto in inverno. E ascoltandoli piano piano è cresciuta in me la volontà di vivere in parte questa situazione. Quindi nel 2017 ho iniziato ad andare a Linosa anche fuori stagione. Ed effettivamente ho subito vissuto i disagi di cui mi hanno parlato. Prima di tutto la difficoltà di raggiungere l’isola. A causa della mancanza di un vero e proprio porto, la nave a Linosa può attraccare solo se il mare è abbastanza tranquillo, e si può facilmente capire che questa condizione è difficile da avere soprattutto nei mesi invernali, e per il fatto che si è in mare aperto. Per questi motivi l’isola rischia di rimanere “isolata” anche per diversi giorni consecutivi. Nonostante la costante difficoltà nel raggiungere l’isola, sono riuscita a passare diverso tempo a Linosa fuori stagione, sparso in circa 3 anni. In inverno l’isola è in una situazione sospesa, i giovani sono quasi tutti via per studiare o lavorare altrove, ci sono solo un bar e mezzo aperto. La pizzeria apre solo il sabato sera. Tutto il resto è silenzioso. È un’atmosfera un po’ surreale per chi è abituato a vivere l’isola solo in estate ma è la situazione reale che vivono gli isolani per almeno 9 mesi l’anno. I giovani con qualsiasi velleità, anche le più banali sono davvero costretti a lasciare l’isola, anche solo per frequentare le scuole superiori. Il loro partire è una costrizione. Si può ben capire che se potessero preferirebbero rimanere nella loro isola, tra i loro affetti e amici.

Tra tutti ci sono poi alcuni giovani che osano e provano a fare qualche attività sull’isola e rimanere lì tutto l’anno. Io ammiro molto questi giovani qualsiasi tipo di scelta decidano di fare, sia partire che rimanere. Sono scelte che la maggior parte dei loro coetanei del resto d’Italia non devono prendere “per obbligo”. Per me Linosa è l’isola del cuore, sono molto affezionata a quest’isola. Per me è un punto in cui andare per staccare, dove potrei stare bene anche da sola, con i miei pensieri, ma anche dove ritrovo amici. Per me Linosa è la pace assoluta. Mi piace che con il passare del tempo molti associno
Linosa a me, è una cosa che non ho voluto, ma capita spesso, e devo dire che mi fa piacere, vuol dire che sono riuscita a raccontare e far amare questo angolo di paradiso anche a chi non conosce l’isola.

Continuando a parlare dei tuoi progetti: molti sono dedicati ai “Luoghi”. Oltre a Linosa, vorrei chiederti di parlarci di un altro paio di progetti che ho molto apprezzato: il primo è In Aqua Salus, in cui presenti uno spaccato “attuale” di Salsomaggiore Terme; il secondo è Comfortable Boring Little World, in cui tracci un immaginario paragone, molto cinematografico, tra la campagna emiliana e gli scenari delle route americane. Ti va di parlarci di questi viaggi?

In “In Aqua Salus” ho raccontato come è oggi Salsomaggiore Terme. Io sono cresciuta in un paese a 20 km da lì, e mi ricordo che da piccola (quindi ormai 30 anni fa) Salsomaggiore era ancora un paese abbastanza rinomato e frequentato, sia per il turismo termale che per la sua fama dovuta al concorso di Miss Italia che lì si svolgeva. Mi è capitato di tornare a Salso più recentemente e non ho più trovato il paese che avevo nei miei ricordi, avvolto da quell’aurea di magia. Così ho voluto indagare e mi si è aperto tutto un mondo che ho deciso di riproporre fotograficamente.

Gli antichi romani conoscevano già le ottime acque salsobromoiodiche presenti nel sottosuolo di Salsomaggiore, ma solo nel 1839 il medico Lorenzo Berzieri ne attestò le proprietà curative: fu l’inizio di un grande successo, basato sul nuovo turismo termale, inedito per un piccolo paese adagiato sulle colline parmigiane. Durante gli anni Venti “Salso” divenne una destinazione obbligata per l’alta società e la media borghesia del Centro-Nord, ma fu nel dopoguerra che il paese conobbe il periodo di maggior benessere: grazie al generoso sostegno del sistema sanitario nazionale, che pagava le cure termali, nacquero nuove strutture termali e numerosissimi alberghi. Si creò un indotto basato sul turismo che in alcuni periodi dell’anno non riusciva nemmeno a far fronte al grande afflusso di clienti, spingendo i cittadini ad affittare persino il garage per poter dare un posto letto ai clienti delle terme. Di quel periodo rimangono a Salsomaggiore architetture importanti come le Terme Berzieri, il Grand Hotel – ora Palazzo dei Congressi -, la stazione ferroviaria costruita su riproduzione di Milano Centrale, il Poggio Diana, le Terme Zoja, la piscina comunale termale e vari hotel extra lusso. Il paese coronò la sua fama nazionale con le numerose edizioni di Miss Italia.

A partire dagli ultimi anni Novanta, la crisi del settore termale riportò Salsomaggiore su un diverso livello, trasformandolo repentinamente da luogo rinomato di villeggiatura a normale paese di provincia. Questo nuovo corso obbliga il luogo ed i suoi abitanti a fare i conti con l’eredità del passato, visibile nelle belle architetture in trascurato disuso, e con un grande senso di nostalgia che si riscontra in tutti i racconti di coloro che hanno vissuto quell’epoca d’oro. E così ho fotografato le architetture più famose e legate al turismo termale di Salsomaggiore, alcune persone che hanno lavorato a Salso negli anni d’oro e ho anche fatto una ricerca di oggetti storici prodotti dalle terme negli anni passati.

Comfortable Boring Little World è una raccolta di foto che ho scattato in un mio viaggio nel 2015 negli Stati Uniti, circa 8 mila km da New York fino alla California passando e deviando per varie città dell’interno americano, e seguendo per grande parte il percorso della Route 66. Ero alla ricerca dei miti americani così come ci vengono raccontati nei film, ma mi sono presto resa conto che facendo eccezione per le sole città più grandi, gli Stati Uniti dell’interno sono molto lontani da quello che siamo soliti vedere nel cinema. La Route 66 è un mito che non fa eccezione, e nella sua anima assomiglia molto alla nostra Via Emilia: una strada che porta dritta alle spiagge, attraverso miglia e miglia di campagne pervase da un senso di “annoiamento” diffuso, ferme nella loro poca voglia di cambiare, rassegnate al presente.

Ma non sono luoghi nel tuo immaginario fotografico. In alcuni progetti come Etnografia delle società complesse racconti anche di persone, in particolar modo di coppie miste. Proprio da questo vorrei partire per raccontare di altri progetti, che nel tuo sito etichetti come “lavori e commissioni”, per chiederti: qual è stato il tuo progetto preferito? C’è un progetto che hai dovuto invece abbandonare per infattibilità?

Non ho un progetto preferito in assoluto, diciamo che ogni progetto è stato il preferito nel momento in cui ci ho lavorato, ad ognuno è legato un momento della mia crescita professionale. Sicuramente i lavori che mi sono rimasti più nel cuore sono Villarotta Cricket, per l’esperienza avuta durante le fasi di scatto e perchè è stato il primo lavoro su cui ho ricevuto un certo interesse da parte del pubblico, poi Linosa per il mio rapporto con l’isola e perchè questo lavoro mi ha portato molta fortuna, e ora sicuramente L’isola degli arrusi, per il tema importante che tratta e perchè penso che vada fatto conoscere a più persone possibili.

Per quanto riguarda i progetti che ho dovuto abbandonare per infattibilità direi di non mi è mai capitato, o meglio ci sono progetti che ho pensato, su cui mi sono informata  ho studiato, e magari mi sono accorta che erano infattibili o troppo difficili. Ma mi sono fermata sempre prima di iniziare a scattare se capivo che erano difficilmente affrontabili.

Ad un anno dal primo lockdown, in cui lo “spostarsi” ha subito notevoli limitazioni, vorrei chiederti: come hai vissuto il lockdown? Soprattutto, sperando di poter eliminare le domande sulla quarantena dalle interviste il prima possibile, come hai vissuto Roma durante il lockdown?

Come tutti, all’inizio delle prime restrizioni non avevo ben chiaro il perchè dovessimo rinchiuderci in casa e ho passato i primi 10 giorni molto arrabbiata, perchè per una partita Iva, fotografa per di più, chiudersi in casa vuol dire non guadagnare e non sapere come pagare la spesa e l’affitto. Poi me ne sono fatta una ragione, come tutti, capendo la gravità della situazione, e devo dire che non è stato un brutto periodo. Sono stati mesi in cui ho approfittato per leggere, documentarmi, vedere molti film, riposarmi, pensare, fare cose che in una vita normale ti senti quasi in colpa di fare perchè sembra che tu non stia producendo nulla. Ma sono cose in realtà sono fondamentali per resettare la mente e pensare a cose e progetti nuovi. Poi ho anche fatto alcune foto durante il lockdown a Roma, una città che per me era nuova, infatti mi ci ero trasferita il novembre prima, quindi solo 4 mesi prima dell’inizio del lockdown. Vedere Roma vuota è stata sicuramente una novità, ma anche per me quasi la normalità. Diciamo che da quando vivo qui conosco una Roma che per me è silenziosa, poco frequentata dai turisti, dove ci sono solo i suoi abitanti. Per me sarà davvero strano vivere questa città dopo, alla fine di tutto, in cui tutto tornerà normale e conoscerò una città che sarà totalmente diversa da quello vissuto fino ad ora.

Alla luce delle attuali restrizioni: stai lavorando a qualcosa di cui puoi raccontarci?

Dato il particolare momento che stiamo vivendo non mi sento libera di poter viaggiare per continuare o iniziare nuovi progetti, motivo per cui ne sto approfittando per leggere molto e documentarmi il più possibile su temi che potrei trattare in futuro fotograficamente. Non mi sento ancora di espormi perchè non so quanto siano fattibili le mie idee, ma diciamo che mi sto ancora
documentando e studiando temi che riguardano il ventennio fascista.

Cosa ne pensi della attuale scena fotografica in italia? Qualche artista che segui e con cui ti piacerebbe lavorare?

In Italia come nel resto del mondo ci sono diversi correnti fotografiche, ci sono correnti più documentarie, come quella a cui penso di appartenere, e correnti più concettuali/artistiche. Negli ultimi anni ho visto il proliferare di molti lavori simil-concettuali, in cui è lasciato molto spazio all’estetica ma in assenza di contenuti forti. Ho visto anche il ripetersi, da un lavoro all’altro e da un fotografo all’altro, di molti clichè che mi fanno un po’ sorridere. Penso che sia una questione di moda. Ora questi giovani fotografi che hanno questo modo di fotografare sono molto popolari in festival, concorsi e commissioni, però penso che passerà di moda anche questa fotografia. Penso che invece ciò che rimarrà sempre, anche se magari più in sordina sarà la fotografia che continuerà, nella sua semplicità, a raccontare cose.

Non ho un artista preferito da seguire. Diciamo che seguo molti, e mi piace vedere quello che fanno gli altri, ma non prendo nessuno come modello. Poi seguo molto anche la musica e la letteratura, e se dovessi scegliere qualcuno con cui lavorare, diciamo che preferirei lavorare con scrittori o musicisti che di volta in volta attirano il mio interesse.

Momento libertà: vuoi mandarla a dire a qualcuno? C’è qualcosa che non ti ho chiesto e di cui ti piacerebbe parlare?

Direi che hai sviscerato tutti i miei lavori in completezza, quindi per quello non ho nulla da aggiungere. E per mandarla a dire a qualcuno, la lista sarebbe un po’ lunghetta! Vorrei solo dire che mi piacerebbe che il mondo della fotografia in Italia fosse un po’ più meritocratico e meno dettato dalle conoscenze (come poi del resto accade in tutti gli altri settori). Una cosa che non capisco è il fatto che propongo i miei lavori a tante riviste in Italia e quasi mai ricevo una risposta (anche negativa, si intende, ricevo sempre solo indifferenza). Io non conosco di persona photo editor e editori, e non penso neanche sia giusto conoscerli solo per farmi pubblicare. Mando decine di mail e ricevo pochissime risposte. Per molto tempo ho pensato di essere io il problema, fino a quando ho provato a mandare qualche mail all’estero, e già dopo le prime mail ho ricevuto risposte e anche contratti di pubblicazione, che avverranno nei prossimi mesi in alcuni paesi europei. Ho capito che il problema non è del tutto mio per questa indifferenza in Italia.

Mi piacerebbe che la situazione cambiasse, perchè io ancora non ho perso la perseveranza di continuare e provare, ma immagino che come me ci siano là fuori tanti altri fotografi che meritano una certa riconoscenza e non la ricevono. Ci possono essere fotografi che potrebbero anche rinunciare a fare questo lavoro meraviglioso solo per indifferenza di chi conta, e sarebbe un peccato se tra di essi ci fossero persone valide.

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