Questa intervista a Francesco Paolo Gassi è uno di quei lavori a cui ho creduto molto sin dall’inizio e che, anzi, speravo di fare – e sono felice di averlo realizzato. Mi sono imbattuto nell’autore per caso sfruttando quel famoso “algoritmo dei social” che tanti si ostinano a voler aggirare e che invece, a saperlo “cavalcare”, diventa un bellissimo mezzo, soprattutto quando l’arte ed in questo caso la fotografia viaggiano su binari definiti: ma attenzione, definiti e mai banali, perchè lo snodo è dietro l’angolo. In questo caso i binari mi hanno riportato alla mia terra d’origine e mi sono voluto confrontare con un ragazzo che nonostante la giovane età ha le idee ben chiare ed una ambizione fresca e spontanea, lontana dalle logiche fotografiche che ormai infestano i festival. Anche nella forma ho voluto lasciare molta libertà, cercando di fare una intervista a distanza, un botta e risposta serrato ma in divenire nei giorni in cui ci siamo scritti. Nella speranza di avere ancora modo di confrontarmi con lui, lascio la parola all’ospite di oggi e vi auguro buona lettura.

Iniziamo con un grande classico: chi è Francesco Paolo? Perchè hai scelto proprio la fotografia per “esprimerti” e come ti ci sei avvicinato?

Ho 21 anni, vivo in un paesino in provincia di Bari e sono un fotografo. Come mai ho scelto la fotografia? Diciamo che è stata la fotografia a venire da me. Io sono figlio di Facebook, Instagram e delle prime macchine reflex sul mercato a 400 euro. In pratica, io ho vissuto con Instagram quello che gli adolescenti di oggi stanno vivendo con Tik Tok. In quel periodo frequentavo le scuole medie e tutti intorno a me subivano il fascino delle vite meravigliose che i blogger mostravano sui social. Quindi, come affetti da una malattia invisibile, abbiamo iniziato a mostrarci su quelle piattaforme con il nostro profilo migliore. Io, però, preferivo fotografare gli altri: ero insicuro e per niente a mio agio con le mie sopracciglia unite. È stata la fotografia ad aprirmi le porte ad una riflessione profonda su me stesso. La fotografia era il mio occhio, il terzo, quello privo di pregiudizi. Fotografavo ciò che mi piaceva senza pormi troppe domande. Fin da subito sono stato attratto dalle pelle del mio compagno di banco e lo fotografavo spesso. Ricordo le sue unghie mangiate per l’ansia, i peli biondi che gli coprivano le braccia, l’odore dei calzini di spugna usati accanto al letto. Lo fotografavo e lo facevo trovando giustificazioni: per esempio dicevo che stavo emulando altri fotografi famosi. Invece ricordo benissimo che fotografando quelle cose provavo molto piacere.

Quindi in qualche modo il tuo approccio è stato diretto alla fotografia e ti sei trovato subito in contatto con la fotografia digitale. Hai anche parlato di social quindi vorrei chiederti: come si è evoluta la tua esperienza? Hai deciso di continuare con il digitale e di scegliere i social per far girare le tue immagini? Questo tuo approccio alla fotografia ha influenzato il tuo orientamento nella scelta delle scuole superiori e, successivamente, di un percorso accademico?

L’apprezzamento immediato che ricevevo sui social mi faceva sentire appagato: ero solo un ragazzino e la dinamica dei followers e dei like mi aveva completamente risucchiato. Questo mi ha portato per molto tempo a produrre e pubblicare contenuti simili a quelli maggiormente apprezzati e quindi privi del mio reale punto di vista.

Il meccanismo del “tutto e subito” e della morbosa necessità di produrre e vedere immagini ha influenzato il mio approccio iniziale con la fotografia. Questo mi ha permesso di esercitarmi molto e di entrare in confidenza con il mezzo: in quel periodo ho capito come funziona una macchina fotografica. Il momento del “come fare la fotografia” è superato. Adesso è il momento del “cosa sto facendo” e del “cosa ci sto mettendo di mio”.

Ho frequentato il liceo scientifico del paese in cui vivo: eravamo 600 alunni in tutta la scuola e avevo pochi stimoli; non pensavo alla fotografia come una possibile strada da intraprendere e su cui investire il mio tempo. A scuola mi sentivo diverso dai miei compagni ed ero spesso incompreso. Sui social, invece, era diverso. Vedevo che altrove c’erano persone che apprezzavano e che capivano quello che stavo facendo.

Queste piattaforme mi hanno permesso di vedere oltre quelli che erano i miei confini spaziali e di conoscere le molteplici realtà che il mondo della fotografia e dell’arte hanno da offrire.

A 19 anni, dopo una residenza artistica a La Spezia con Jacopo Benassi e una mostra al Voies Off de Les Rencontres d’Arles, ho iniziato a vivere la fotografia in modo più serio. Di conseguenza, ho rinunciato agli studi in Economia e Marketing e mi sono iscritto all’Accademia di belle arti.

Ho intervistato Jacopo all’inizio di questa rubrica: senza dubbio un approccio ed un metodo che, seppur integrati in dinamiche fotografiche, si distaccano di gran lunga per la schiettezza dei contenuti e la forza dei messaggi. Anche “Arles” senza dubbio è stata una bella vetrina. 

A questo punto vorrei parlare della tua iscrizione all’accademia: mi dicevi nella nostra chiacchierata pre-intervista che nel frattempo porti avanti con qualche difficoltà i tuoi progetti personali e lo studio accademico. Possiamo chiederti di parlarci del tuo approccio fotografico e dei tuoi progetti. Inizierei col chiederti di questo “posto fotografico” a cui stai lavorando. Dal tuo modo di vivere la fotografia potremmo parlare di una tua voglia di percorrere altre “strade” della fotografia che non siano i classici festival?

Il mio posto fotografico? Intendi la cantina fatiscente che ho ristrutturato? Nel marzo del 2020 sono state imposte le prime restrizioni a causa della pandemia e inizialmente, illudendomi che tutto sarebbe finito in breve tempo, sono rimasto sulla poltrona ad aspettare che le cose si risolvessero per ritornare a sognare e progettare.

La Puglia non è famosa per essere la regione dalle mille possibilità: se hai un sogno, qui tutto ti sembra impossibile e guardi le cose dalla prospettiva sbagliata. Anzi, smetti di guardare. Passavo le giornate in attesa di andare a vivere altrove, non mi guardavo attorno e non facevo granché per cambiare le cose.

A settembre ho aiutato mio padre a cercare dei documenti nella cantina della nostra vecchia casa e in quel posto fatiscente ci ho visto del potenziale. Sono tornato a casa e ho detto ai miei genitori che l’avrei ristrutturata chiedendo una loro collaborazione per rendere il mio progetto possibile.

Oggi quel posto è la mia nuova casa-studio. Una volta finita questa situazione diventerà un posto di condivisione, confronto e partecipazione, dove poter parlare di arte e fotografia liberamente. Insomma, sto iniziando a godere delle cose che ho attorno e questo mi fa stare bene.

Per quanto riguarda la questione accademie e festival, io oggi faccio fotografie perché è il mio modo di comunicare con l’esterno e non per essere valutato come accade generalmente nelle Accademie. Secondo me non si dovrebbe valutare il lavoro di giovani artisti.

Ben venga se dovessi arrivare ai festival, ma non voglio riservare le mie fotografie esclusivamente alla mercè di gente del settore. Mi piace provocare e vedere le reazioni delle persone e spesso mi sento molto più appagato quando a giudicare è la gente del mio paese. Sento che sto smuovendo qualcosa in loro e questo mi fa stare bene. In alcuni vecchi lavori mi mostro con il trucco agli occhi, smalto, luci colorate, flash e lustrini. Se sei a Milano sei uno dei tanti; se sei a Conversano è più probabile che ti insultino.

Vorresti anche parlarci di alcuni dei tuoi progetti realizzati finora? Ad esempio: come ti sei presentato ad Arles? Ed oggi invece come ti presenti?

L’anno scorso, in periodo pandemico ho organizzato, insieme ai ragazzi di CITT (Collettivo Inclusivo Transfemminista Territoriale), una mostra dal titolo Sempre di +, uno sguardo sulle soggettività dell’acronimo LGBTQIA+, con l’obiettivo di discutere insieme alla cittadinanza del valore sociale e politico del linguaggio. Intorno alla comunità LGBTQIA+, e al solo acronimo, esistono pregiudizi e ignoranza che vanno colmate con conoscenza, incontro e creatività.

Quello che abbiamo voluto fare con Sempre di + è stato contribuire a sdoganare e normalizzare le parole che descrivono e costituiscono la nostra identità e il nostro orientamento. A modo nostro e senza il bisogno di essere controllat* da un’etichetta. Io credo sia compito dell’arte, almeno di quella che piace a noi, raccontare che la bellezza è fluida e che le commistioni sono possibili.

Per il resto sarò breve dicendoti che le mie fotografie fanno parte di un unico percorso di crescita e soprattutto di liberazione dai tabù che avevo e che ancora oggi ho. Ad Arles ho portato una serie intitolata Who dies at sea: questa è una serie introspettiva nata dal bisogno di raccontare come mi sentivo durante un periodo triste della mia vita. Il mio lavoro nel tempo si è aperto ad altre interpretazioni poichè nei giorni in cui stavo presentando le mie fotografie c’è stato l’ennesimo naufragio nel Mediterraneo.

È incredibile come parli di percorso per quanto, permettimi, sei molto giovane ma allo stesso tempo determinatissimo. Nel parlare della tua fotografia hai una lucidità estrema, riesci a illustrare appieno quali sono i tuoi progetti e il tuo orizzonte. Un voler conoscere tutti i passi, una attenzione ai particolari che in un certo senso si ritrova anche nelle tue immagini: una luce diffusa che spesso riempie l’immagine evidenziando segni e dettagli.

A questo punto vorrei iniziare a parlare di progetti: alcuni ce li hai gia accennati: in questo momento a che punto del percorso sei? Come lo stai affrontando? Stai lavorando a qualcosa e credi di aver gia definito il tuo stile?

Sto crescendo e sto cambiando. Ogni giorno metto in discussione la fotografia e la mia idea di fotografia. Sto studiando, esplorando altri campi dell’arte e credo che riuscirò a sopravvivere soltanto reinventandomi con il passare del tempo.

Attualmente sto svolgendo una residenza artistica presso Lamia Santolina, lo studio-giardino di Cosimo Terlizzi, artista visivo e regista pugliese. Il suo lavoro mi ha impressionato e con lui stiamo lavorando da marzo 2021 su un nuovo progetto fotografico basato sul suo giardino chiamato Seconda Natura, che vedrà la luce questa estate.

Per quanto riguarda il resto, non so se ho uno stile e non lavoro nella prospettiva di averne uno. Penso ci sia sempre qualcosa di simile alla base delle mie fotografie, perlomeno nell’intento o nel messaggio.

Secondo me – azzardo! – questo “qualcosa di simile”, questo fil rouge delle tue fotografie è il voler portare alla luce qualcosa di celato. In alcuni tuoi scatti evidenzi i dettagli dei segni sulla pelle, nelle foto a colori in qualche modo “esasperi” i colori senza mai trasformarli. Proprio parlando di alcuni scatti relativi alla tua residenza artistica credo si possa parlare di una “natura 2.0” in cui la natura che volete raccontare è tutt’altro che morta.

Ti va di parlarci della residenza artistica? Come nasce questa sinergia con Cosimo Terlizzi e come siete riusciti a sintonizzare le vostre esperienze artistiche?

Ho conosciuto Cosimo Terlizzi grazie al suo film DEI, presente sulle piattaforme di streaming. Quindi ho cercato il suo nome sui social e ho iniziato a seguire la sua vita all’interno del suo giardino–atelier “Lamia Santolina” in Puglia.

Ho subito notato come il tempo all’interno di quel luogo seguisse delle regole diverse rispetto al mondo circostante: tutto lì scorreva molto più lentamente e questo riuscivo a percepirlo anche solo attraverso lo schermo del telefono. Mi affascinava sapere che un artista potesse vivere da contadino e viceversa. Così un anno dopo ho ricevuto il suo invito e, finalmente, ho potuto visitare il suo giardino. I rami secchi della lavanda sembravano tutt’altro che morti. Cosimo è riuscito a donare nuova vita e nuova dignità alla pianta.

Io provengo da una famiglia contadina e questo luogo mi ha permesso di riconsiderare le mie origini ed il mio passato, guardandolo sotto un nuovo punto di vista. La possibilità di fotografare la natura era stata fino a quel momento lontana dal mio interesse. Invece, quel giorno, ho subito preso la mia macchina fotografica per catturare il mio passaggio all’interno di quel luogo. In seguito ho sentito il bisogno di ritornare lì più volte. Cosimo aveva capito che ero entrato in sintonia con il giardino e mi serviva più tempo per approfondire la mia ricerca. La residenza artistica è stata, quindi, una necessità che si è creata spontaneamente da entrambe le parti.

In un altro tuo progetto ricorre l’elemento naturale ed è quel progetto di incontri di cui mi hai mostrato qualche scatto: anche qui mi sembra di scorgere degli elementi ricorrenti come la natura ed anche l’attenzione alle luci. Ti va di parlarcene?

Si, sarò breve perché è un progetto a cui sto lavorando. Comunque, come hai detto, l’elemento naturale è ricorrente: in questo caso sono stato attratto dalle persone che abitavano questi luoghi naturali e di periferia. Tutto è nato una sera d’estate quando, dopo una giornata di mare con il mio migliore amico, ci siamo ritrovati in un luogo che alla sera si era completamente trasformato: durante il giorno frequentato da famiglie e bagnanti e poi, la sera, da persone alla ricerca di sesso. Sono stato subito affascinato da queste dinamiche perchè era come ritrovarsi all’interno di un film.

Così ho iniziato a fotografare alcune delle persone che frequentavano quel luogo. Giro con un solo flash a slitta e la mia macchina fotografica per essere il meno ingombrante possibile. Il progetto si sta evolvendo e lo sto integrando con un’indagine sulle mie perversioni e i miei luoghi dell’amore e del sesso.

Hai gia in programma qualcosa dopo questa residenza artistica? Ci sono collaborazioni che vorresti fare? E, parlando di collaborazioni, ci terrei a farti una domanda che faccio spesso nelle interviste: spesso in Italia si parla di scena fotografica o, comunque di circuiti di diverse dimensioni… ti senti affine a qualche realtà o ti senti più un freelance? Ci sono artisti a cui ti ispiri?

Quando il progetto con Cosimo Terlizzi sarà concluso mi godrò l’estate in Puglia. Poi magari ritornerò a viaggiare.

Attualmente non ho collaborazioni in mente che mi piacerebbe sviluppare. Voglio lavorare su me stesso e concludere i progetti che ho lasciato in sospeso.

Non mi sento vicino agli ambienti fotografici di cui parli. In Italia ci sono diverse correnti che oggi vanno molto di moda. Anche la narrazione della Puglia e della vita in Puglia si sta appiattendo e rivedo in molti fotografi lo stesso punto di vista. Sta emergendo una visione della Puglia piuttosto stereotipata che non include tutte le realtà di cui è pregna. Secondo me stiamo dando una narrazione troppo comoda e politicamente corretta.

Mi sento molto vicino alla comunità lgbt e a tutti gli artisti che dall’interno o dall’esterno si stanno sforzando di dare dignità a tutte le minoranze. Dobbiamo continuare a far girare nuove immagini per decostruire i pregiudizi e l’odio su cui si basa la società contemporanea.

Bene, di solito questo è il momento del momento libertà o della domanda scomoda, mi avevi detto di preferire la seconda ma vorrei lasciarla in sospeso per la prossima volta in cuiavremo modo di confrontarci con la fotografia. Per ora ti ringrazio e ti saluto, nella speranza di incontrarci presto.

NESSUN COMMENTO

LASCIA UN COMMENTO