Due album in due anni, una messe di collaborazioni eccellenti e di nominations, dal British Breakthrough Act dei BRIT Awards, all’Album of the Year del Mercury Prize, fino alla vittoria come Best New Act dei Q Awards, Jake Bugg pare proprio essere uno dei più solidi e prolifici talenti in circolazione. Già fattosi notare per la peculiare miscela di sonorità folk, country e brit rock che contraddistinguono il sound dell’omonimo album d’esordio, uscito il 15 ottobre 2012 su Mercury e subito piazzatosi al primo posto della UK Album Chart, Bugg, classe ’94, da Nottingham, con Shangri La ha trovato la consacrazione. Pubblicato il 18 novembre sempre via Mercury, questo secondo lavoro deve il nome ai mitici studios dove è stato realizzato sotto la sapiente guida di Rick Rubin e Iain Archer (produttore anche del pluripremiato Jake Bugg) e con la collaborazione di pezzi grossi della scena rock a stelle e strisce, Chad Smith dei RHCP su tutti.

La storia che si cela dietro ai leggendari studi di registrazione Shangri La, è abbastanza affascinante per ritenere il caso di perderci in una piccola divagazione. Nel 1933, lo scrittore britannico James Hilton nel suo romanzo Lost Horizon narrava di un luogo immaginario collocato agli estremi confini occidentali dell’Himalaya, Shangri La, un luogo fuori dal tempo e lontano dai vizi e dagli affanni umani. Nel ’37 dal romanzo fu tratta una pellicola di successo e qualche anno dopo l’attrice Margo Albert, che nel film interpretava Maria, fece costruire sulle incantevoli colline di Zuma Beach, Malibu, un ranch, cui diede il nome di Shangri La. Leggenda vuole che per tutti gli anni ’50 il ranch fungesse da bordello di lusso, frequentato dalle star di Hollywood, per diventare nei ’60 il set della serie TV Mister Ed. All’inizio del decennio seguente, fu Rob Fraboni a trasformare il ranch in uno studio di registrazione, progettato su misura per Bob Dylan e dove nel ’76 Eric Clapton, con la collaborazione dello stesso Dylan, Joe Cocker, Pete Townshend, Ringo Starr e Ronnie Wood, registrò il suo “No Reason to Cry”. Nel 2006, infine, lo studio fu rilevato dal produttore Eric Lynn, che lo rimise al passo coi tempi, conservandone però la patina degli anni che furono. La scelta del giovane cantautore britannico, che a Dylan, come più in generale al filone folk rock e country statunitense di Jonny Cash, Don McLean, Neil Young deve moltissimo, appare dunque del tutto naturale.

Da poco salpato per un lungo tour mondiale, che toccherà quattro continenti, Jake Bugg ha fatto tappa, l’unica in Italia, con il sold out di mercoledì all’Alcatraz di Milano.

A aprire la serata gli statunitensi HoneyHoney. Composto da Suzanne Santo (voce, violino e banjo) e Ben Jaffe (voce e chitarra), il duo ha all’attivo l’EP Loose Boots (2008, Ironworks) e due album, First Rodeo (2010, Ironworks) e Billy Jack (2011, HoneyHoney Records/Lost Highway), un bel mischione di country, folk, rock, blues con qualche strizzatina d’occhio al pop, piatto ricco. Al primo passaggio in Italia, il duo si è fatto apprezzare da un audience estremamente vario e sorprendentemente attento.

Jake Bugg sale sul palco puntualissimo, jeans e maglietta nera, sullo sfondo solo un telo nero con il suo nome, niente saluti, niente presentazioni – il diciannovenne di Nottingham è uno di poche parole – e si parte. Com’era lecito aspettarsi, lo show mette al centro il talento compositivo ed interpretativo di Bugg, che a soli diciannove anni, accompagnato da basso e batteria, tiene il palco con il savoir-faire di un artista navigato. La scaletta, poi, conta già venti brani tra cui solo una cover, la fondante My My, Hey Hey di Neil Young, eseguita come encore.

Si inizia dalle atmosfere 50s e rockabilly di There’s a Beast and We All Feed It, opening track del nuovo album, Trouble Town e Slumville Sunrise, per passare – in un live di poco più di un’ora, ma che si distingue per varietà e ritmo -, attraverso quelle più brit rock dei suoi successi Seen It All, Two Fingers e Lightning Bolt, a quelle di Slide, Messed Up Kids e What Doesn’t Kill You, pezzi in cui si sente tutta l’influenza degli Arctic Monkeys. E poi ci sono il folk di Simple as This, Storm Passes Away e Broken, dove la scrittura si fa raffinata, matura, e il blues elettrico di Ballad of Mr. Jones e Kingpin, giusto per rendersi conto che, come se non bastasse, Jake Bugg è anche un buon chitarrista.

SCALETTA

01 There’s a Beast and We All Feed It
02 Trouble Town
03 Seen It All
04 Simple As This
05 Storm Passes Away
06 Two Fingers
07 Messed Up Kids
08 Ballad Of Mr. Jones
09 Country Song
10 Pine Trees
11 Song About Love
12 Slide
13 Green Man
14 Kingpin
15 Taste It
16 Slumville Sunrise
17 What Doesn’t Kill You

—-
18 Broken
19 My My, Hey Hey (Neil Young Cover)
20 Lightning Bolt

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