Succede che, dopo una lunga e spossante gavetta, trascorsa a suonare in piccoli club, pub e bettole un tempo fumose, oggi solo marcescenti, di fronte ad un pubblico occasionale e distratto, qualcuno noti il tuo lavoro e che questo qualcuno vada sotto il nome di Lily Allen, nella forma della sua etichetta In The Name Of. E capita che il tuo EP d’esordio, che contiene quattro pezzi scritti nella quasi totale certezza che nessuno li ascolterà mai e che hai chiamato Songs From Another Love (15 ottobre 2012, In The Name Of/Columbia), ti valga il BRITs Critics’ Choice Award, premio che fra i vincitori annovera gente come Florence and The Machine, Adele e Emeli Sandé, e che dopo averne pubblicato un secondo The Another Love EP (14 giugno 2013, In The Name Of/Columbia), il tuo album, Long Way Down (24 giugno 2013, In The Name Of/Columbia), appena uscito si piazzi per ventuno settimane in testa alle classifiche nel Regno Unito. Succede che all’autorevole NME il tuo disco non piaccia per niente e ti atterrisca con uno 0/10 e che a risollevarti il morale arrivi la chiamata dei Rolling Stones: ti vogliono per aprire il loro live a Hyde Park! e che, poi, sfiga voglia che proprio in quei giorni la salute ti abbandoni temporaneamente, al contrario del rimpianto che ti porterai dietro a lungo per aver dovuto declinare l’invito. E succede anche che, dopo tutto questo, ti si appiccichi l’etichetta di belloccio e che volente o nolente, lo zoccolo duro della tua fanbase sia costituito da una falange di quasi ventenni assatanate, che ai tuoi concerti coprono tutti gli attacchi di batteria con una serie di acuti, che manco i Cradle of Filth.


Vista la frequenza con cui la cosa accade per molte, troppe, musiciste, il cui inconfutabile talento, viene sempre secondo all’immancabile riferimento al gradevole aspetto – Video Killed the Radio Star cantavano i Buggles nell’ormai lontano ’79 – confesso di essere agitata da una pulsione vendicativa, che tuttavia domerò per le medesime ragioni che l’hanno scatenata. Tom Odell, classe 1990, da Chichester (UK), gli va riconosciuto, è un ottimo songwriter – nei suoi pezzi, al di là delle tematiche di amori vissuti, persi, ritrovati, si sente prepotente, ma ben assimilata l’influenza di artisti come Jeff Buckley, Coldplay, Arcade Fire e Mumford & Sons, ma anche dei grandi classici Elton John e Springsteen – e, come abbiamo avuto modo di testare martedì in occasione dell’unica data italiana al Factory di Milano, un eccellente performer.

È stato chiaro sin da subito o almeno dalla reazione scatenata delle prime file alla prova luci, missione della serata: titillare bastantemente le groupies sottopalco, già prese, e conquistare le retrovie degli scettici a braccia conserte, evitando gli eccessi nell’una e nell’altra direzione. Il live – scenografia essenziale fatta di qualche lampadina piazzata sul palco e del vessillo col nome dell’artista stampato a caratteri cubitali sullo sfondo – inizia esattamente come l’album con Grow Old With Me, ballata romantica che si sviluppa in un costante crescendo, seguito dalla sapiente alternanza di tensione e rilassamento di I Can’t Pretend, uno dei brani nella cui strofa si sente l’influenza del mai abbastanza compianto Jeff Buckley, unita nel chorus a quella dei Coldplay, influenza che riverbera anche nelle efflorescenze corali di Sirens.

Un avvio interessante, direi, e se su I Know le teste iniziano a muoversi anche nelle retrovie, la missione pare quasi compiuta con l’eleganza di Sense (a proposito di Jeff Buckley, quanto di lui c’è in questo pezzo!), che rapisce la sala. L’approccio di Tom al piano è potente, quasi violento, la voce, benché non sempre impeccabile, è la sua, perfetta per i suoi pezzi e la loro storia, ma quel che più impressiona è la capacità del giovane cantautore di giocare con le dinamiche, non solo all’interno del singolo pezzo, ma anche nella struttura del concerto.

Gettati i giusti presupposti, arriva il momento di una cover ed è alla beatlesiana Oh! Darling, che Tom affida il compito di stemperare l’atmosfera e di introdurre la seconda parte del live, quella votata all’energia, che con Suppose to Be e le due hit Another Love e Hold Me, cantate ovviamente a squarcia gola dalle prime file (le ragazze hanno la tendenza a fare un po’ tutto da sole, ma c’è da dire che Tom ci mette del suo), porta verso il finale. L’encore, dal canto suo, se con le cover Gone at Last (di Paul Simon) e I Just Want to Make Love to You (di Willie Dixon) mette in evidenza le radici musicali del cantautore britannico, con le originali See If I Care, dal secondo EP e Cruel, un pezzo nuovo, lascia ad intendere come il futuro, per Tom Odell, paia promettere davvero bene.

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