Nell’estate del 1938 un gruppo di giovani autori si riunisce in una terrazza di Greve. Di cosa parlarono quella sera? Di un progetto semplice: il loro editore, Enrico Vallecchi, voleva dar vita a un nuovo bollettino editoriale, ma i due autori ai quali lo affida sentivano la necessità di un foglio polemico e vivo, che radunasse tutti gli scrittori sparsi per Firenze, o riuniti per ore attorno ai tavoli delle Giubbe Rosse, come Montale, De Robertis, i superstiti solariani, Delfini, Landolfi, Bo, Bigongiari, Traverso, Parronchi, Luzi, Macrì. Nomi da poco, verrebbe da dire con un’antifrasi. I due autori ai quali viene affidata la direzione del foglio si chiamavano Alfonso Gatto e Vasco Pratolini, e quel giorno nacque la rivista “Campo di Marte”. Tutto molto lineare. Ma Vallecchi deve aver maledetto più volte quella sera, perché i guai che gli provocò quel quindicinale non furono pochi. Ma andiamo per ordine.

pratoIl primo numero di “Campo di Marte” porta la data del 1° agosto 1938. Il sottotitolo è “quindicinale di azione letteraria e artistica”. Il giornale ha un solo foglio: quattro pagine in formato 34 X 48. Costa 40 centesimi, abbonamento annuo lire 8. Direttore responsabile Enrico Vallecchi, redazione Alfonso Gatto, Vasco Pratolini, con sede in Viale dei Mille n. 72, Firenze.
La rivista vive per diciassette numeri effettivi e ventidue nominali, con numerose interruzioni. L’ultimo numero porterà la data 1° luglio – 1° agosto 1939. Un anno preciso. In così poco tempo però, il foglio ha assunto un’importanza incredibile, come lo stesso Gatto dichiara nel suo “congedo provvisorio” dell’ultimo numero: per un anno ha polarizzato l’attenzione e spesso l’ostilità dell’Italia letteraria. Dal secondo numero i disertori di “Frontespizio” e i collaboratori di “Corrente”, e tutto il gruppo delle Giubbe Rosse, cominciano a confluire nel progetto. Vallecchi lascia fare, i giovani scrivono in assoluta libertà, lui si limita a inserire nel giornale la sua pubblicità, i suoi notiziari, senza invadere la parte redazionale. Collabora anche personalmente, con dibattiti sui problemi del mercato librario, ma poco e a margine. Presto però si troverà in difficoltà molto serie, e subirà il destino dei direttori responsabili: passare dei guai per conto di terzi. Ma Vallecchi non si tirerà mai indietro, armandosi di grande pazienza, e continuerà a sostenere il gruppo anche davanti alle più arroganti minacce, fino ad ogni limite allora possibile. Sì, perché “Campo di Marte” ebbe ogni sorta di nemici, come scrive Ruggero Jacobbi:

“1) il fascismo ufficiale, che vedeva in esso riapparire (né più sotto forma di grossa costosa rivista trimestrale per iniziati come “Letteratura”, ma quale giornalino da quaranta centesimi ogni quindici giorni) l’europeismo di “Solaria”, che tanto aveva faticato per sopprimere;
2) il fascismo rivoluzionario (ma sì, è esistito anche questo) per la piega <<assoluta>>, <<metafisica>>, <<assente>> che i giovani venivano prendendo;
3) l’antifascismo crociano, per il violento antidealismo del nuovo raggruppamento;
4) la cultura cattolica ufficiale, perché vedeva alcuni cattolici di particolare prestigio abbandonare le vie tracciate in filosofia dalla neoscolastica e in letteratura dal <<Frontespizio>> dei Papini, Bargellini, Occhini, Giuliotti;
5) il mondo universitario, per l’intonazione antiaccademica del lavoro critico;
6) i vecchi futuristi, cui veniva sottratta ogni residua funzione d’avanguardia;
7) la letteratura di consumo, per l’energica apologia che <<Campo di Marte>> faceva di scrittori di poca tiratura, attraverso la testimonianza critica di gente votata alla solitudine come a garanzia di nobiltà;
8) la letteratura pura, aristocratica, di rondisti e postrondisti, per quella improvvisa insorgenza di <<problemismi>>, <<moralismi>>, <<psicologismi>> che si supponevano debellati;
9) la letteratura neorealista (qualcuno crede che questa parola sia stata inventata nel dopoguerra? Si disilluda e vada a rileggersi le polemiche tra calligrafi e contenutisti degli Anni Trenta) per tutto quanto di antistoricista e antinaturalista gli ermetici affermavano;
10) tutti i buoni borghesi, perché non capivano una parola, e non capire equivale a irritarsi o a mettersi in sospetto.
(Ruggero Jacobbi, “Campo di Marte trent’anni dopo, 1938/1968” Vallecchi Editore Firenze).

prato2Bel problema, perché questa ondata di ostilità si tramuta velocemente in guai seri. Il ministro della cultura popolare manda a chiamare Vallecchi, e sventolandogli sotto il naso il giornale gli chiede spiegazioni su quanto stanno combinando quei giovani. Ma l’editore li difende, senza riuscire a convincere il ministro: li starà a guardare, e se non cambia nulla, fine dei giochi. Da qui una lunga crisi del giornale, interruzione durante la quale piovono attacchi da tutte le parti sulla stampa. Poi il giornale riprende a uscire, con un fondo di Alfonso Gatto intitolato “Fine della commedia”, in cui afferma “Intorno al nostro lavoro abbiamo lasciato che si ricomponessero la pace e la disciplina di cui abbiamo bisogno”. Pura illusione. Il numero contiene comunque alcuni accorgimenti, come un pezzo sulla Carta della scuola (Proposta di riforma del sistema scolastico del ministro Giuseppe Bottai del 1939) e una cronaca dei Littoriali.
Questo non fa che inferocire gli avversari, poiché le posizioni non sono del tutto ortodosse. Il richiamo governativo era stato in riferimento al numero 7 dell’anno I, e l’accusa era di <<esterofilia>>, e non era infondata, per giunta. Metà della prima pagina infatti era dedicata a una lunga recensione a un libro di André Rousseaux; la seconda contiene un pezzo su Degas e Valéry, uno su Sainte-Beuve, uno sul simbolista americano Richard Hovey, ed uno sul poeta inglese E. A. Housman. In quarta pagina c’è un violentissimo pezzo di Fernando Ballo contro i reazionari della musica, a proposito del festival di Venezia, e in particolare contro il critico del “Popolo D’Italia”; una presa di posizione della Mazzucchelli sull’architettura, piena zeppa di nomi stranieri; e la “Selva di Francia” di Dal Fabbro, dedicata per l’occasione al Dizionario del Surrealismo e all’influsso della poesia francese su quella tedesca del Novecento: gaffe imperdonabile.
Tutto questo è molto azzardato per la cultura di un regime nazionalista e imperialista. Nei numeri successivi le cose non danno segno di prendere una direzione diversa.
Numero 8: Pratolini parla di Daniel Rops, Petroni se la prende con la letteratura coloniale, Altichieri attacca la critica cinematografica dei grandi giornali, Ballo infierisce di nuovo sul cronista musicale del “Popolo d’Italia”, Dal Fabbro scrive di Essenin e presenta un’altra “Selva di Francia”.
Numero 9: si comincia a parlare di Svevo, in piena campagna razzista; si polemizza con Crémieux, si commemora il ventennale della morte di Apollinaire e si commenta la recente scomparsa di Jammes; cosa ancora più grave, Berti dedica interamente il suo “Notiziario americano” alla giovane narrativa <<sociale>> di ispirazione marxista.
Numero 10-1 (Cattivo segno, a cavallo tra il primo e il secondo anno cominciano a uscire numeri doppi): ancora Svevo, con inediti e presentazione di Vigorelli; un brano di “Erica” di Vittorini, scrittore sospettissimo sin dai tempi di “Garofano rosso”, un profilo della Dickinson, ancora un acceso pezzo sull’architettura (Aalto, Wright, ecc.), una traduzione da Mallarmé e una nota sui “carnets” baudelairiani; una recensione dello “Sparkenbroke” di Morgan ed una del “Mauriac” di Luzi.
Numero 2, anno II: la Veronesi definisce Rosai “il primo pittore antiborghese” e Ferrata, parlando di De Chirico e Savinio, da poco rientrati in Italia, fa questa domanda: “Riassorbire De Chirico e Savinio. È un tema d’autarchia meno interessante che i saponi?”. Berti presenta John Fante. Dopo l’interruzione il numero 4-5-6 contiene in calce ad una pagina queste righe: “uno dei prossimi numeri sarà dedicato interamente all’Italia, rivelata nelle sue immagini, nei suoi paesi, nei suoi orizzonti dagli scrittori più vivi d’oggi”. Non servirà a nulla, la rivista ne aveva ancora per tre numeri.
Nel 7-8 Altichieri ha l’impudenza di condividere l’opinione di D. H. Lawrence sugli italiani. Nel 9 Vigorelli seppellisce la morale <<eroica>> di D’Annunzio, Poggioli traduce un poemetto di Puškin, “La plebe”, sul poeta che si chiude nel suo isolamento e si rifiuta di fare da araldo alle masse: “Noi non nascemmo per l’azione – né per il lucro, per le schiere”.

Sui tavoli dei gerarchi, intanto, continuano ad accumularsi ritagli.

Nel numero 10 la Veronesi attacca gli architetti <<corporativi>> e Gatto ricorda un amico morto, che aveva il torto di essere americano. È la fine. Il ministero ingiunge a Vallecchi di smettere. Ma Vallecchi ottiene l’autorizzazione a stampare un ultimo numero, che sarà curato dal solo Pratolini, Gatto si è trasferito a Milano. Basta, fine dei giochi, ma un solo anno è stato sufficiente a lasciare il segno. A questo proposito vale la pena rileggere le parole con cui Ruggero Jacobbi descrive l’esperienza di “Campo di Marte”, per comprendere la portata di questo lavoro di resistenza, di libertà e di amore per la letteratura e non solo, in anni bui della nostra storia:

E forse basterà dire che quei giovani innanzi tutto difendevano la letteratura; la difendevano in sé e fuori di sé, come l’unica cosa pulita intatta possibile che una società delittuosa e pacchiana lasciava loro.

Ora penso che la letteratura si è sempre dovuta difendere, lungo tutto l’arco del Novecento italiano. Al tempo della <<Voce>> si è difesa contro chi le chiedeva poemi libici e imperiali, romanzi rusticani, Inni dei Lavoratori, sistemi filosofici e conversioni religiose. Al tempo della <<Ronda>> ha difeso almeno la propria autonomia linguistica da un’ondata sciocca e feroce di letteratura di consumo. Al tempo di <<’900>> ha difeso la propria libera fantasia contro ogni verismo e bozzettismo. Al tempo di <<Solaria>> ha difeso la propria appartenenza all’Europa contro ogni clausura provinciale. Al tempo di <<Campo di Marte>> ha difeso addirittura la propria esistenza, come necessario stimolo morale e come apertura segreta a un futuro di libertà.” (Ruggero Jacobbi, “Campo di Marte trent’anni dopo, 1938/1968” Vallecchi Editore Firenze).

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