Quando incontrammo H la prima volta (accadde in casa di qualcuno ad una festa di compleanno, pare, collettiva), lui era un alto, magro e spropositatamente pensieroso studente di farmacia. La stanza era rumorosa e afosa come una cucina. In un momento, probabilmente per caso, capitammo, noi e H, su un piccolo balcone avviticchiato da una ringhiera forgiata a motivi vegetali. Sotto rombava indifferente la stretta di via della Santissima Trinità. Usando come un portacenere un bocciolo socchiuso di un nero fiore di ferro, H fumava silenzioso una piccola sigaretta, sopra la brace della quale si arricciava il fumo bluastro di tabacco con uno strano aroma dolce-speziato. La nostra non obbligatoria osservazione, che la San Pietroburgo serale con qualsiasi tempo desta la sensazione di un brutale disagio dell’anima, fece piombare H in uno strano stato di serietà che appena schiuse il suo bizzarro modo di pensare. “Le case e le strade delle città non profumano più”, disse lui, “questo si nota particolarmente di sera”. Dopo una riflessione H decise di chiarire l’idea con un’aggiunta categorica e lapidaria, “gli odori dei sacrifici, gli aromi degli incensi alimentano non soltanto le divinità, ma anche i corpi e le anime dei mortali”.
Sul cornicione della casa accanto un piccione gozzuto danzava intorno ad una colomba. Ci incuriosì se i pensieri di H fossero collegati con la sua futura professione, ma risultò che il lato medico della questione era uno di tanti, tra cui anche quello sacrale, filosofico, occulto, gastronomico, cosmetico, sociale, – infatti gli antichi non tracciavano una distinzione rigorosa tra le erbe medicinali e quelle aromatiche, tra vari generi d’incensi, tra i narcotici e le spezie, tra le piante che alimentano gli uomini e gli immortali e i mezzi cosmetici per sedurre gli uomini e gli dei… Nella stanza esplose lo champagne e ci invitarono a tavola.

In seguito, quando noi stessi ci eravamo già accorti di molte cose, ci capitò tra le mani un quaderno con gli scritti di H (secondo la maggioranza delle persone che lo conoscevano, H era già morto). In quanto al contenuto, noi non potemmo definirlo né come un diario, né come appunti di lavoro, a prima occhiata esso appare come una raccolta casuale di citazioni senza rimando alle fonti, riassunti di letture, cose sentite e pensieri propri di H dal carattere al solito ipotetico. Comunque dopo un po’ di studio la presunta incoerenza inizia ad acquisire l’aspetto di una rete che si restringe, – complessa interconnessione, i cui fili sono stati gettati da un frammento all’altro con lacune, ritorni e grosse cellule dove scivola tutto il resto, – l’interconnessione, fondata su uno sviluppo progressivo del pensiero nella comprensione dell’esoterismo dell’odore. Per mostrare in modo più evidente l’evoluzione dell’impresa di H ci permetteremo di citare di tanto in tanto i brani scelti di quel quaderno. Nei brani riportati è assente la farmacopea dei mezzi menzionati, a volte estremamente pericolosi (le note di lavoro di H finora non si trovano), quindi le accuse dell’irresponsabilità o anche criminalità della loro pubblicazione non possono essere accettate.

– Felice fu il loro arrivo nel paese di Punt. Secondo l’ordine del dio degli dei Amon furono portate diverse cose preziose da quella terra. Lì si può provvedersi di aromi in qualsiasi quantità. Presero tanta resina profumata e mirra fresca, legno d’ebano, avorio e oro puro della terra di Amu, tinta per gli occhi, scimmie cinocefale e scimmie dalla coda lunga, cani da vento, pelli di leopardo e abitanti locali con bambini.

– Il vecchio fece fuoco, arrotolò un cilindro di carta con la polvere medicinale e suffumicò entrambe le gambe dello studente, poi gli ordinò di alzarsi. Non soltanto gli passò il dolore, ma si sentì più sano e robusto del solito.

– Nelle fonti cinesi si narra dell’importazione delle sostanze aromatiche per usi rituali, gastronomici e medici dall’India e dal Medio Oriente. Nella Cina antica circolavano le leggende sulle sostanze aromatiche dell’Indocina, dove gli alberi secernevano balsami e resine profumate. Ancora prima dell’epoca Tan gli imperatori armavano spedizioni alle rive del Golfo di Siam alla ricerca dell’albero che secondo la leggenda, presentava una pianta aromatica universale: le radici erano il sandalo, il tronco – il lauro-canfora, i rami – l’aloe, le infiorescenze – la gomma, i frutti – il bergamotto, la foglia – l’ambra, la resina – l’incenso.

– Per le ferite: prendere del lievito, del vino bruciato, dell’incenso, spaccare delle uova di gallina e spalmare la ferita.

– Se a un cristiano senza ragione mancasse il fiato, la lingua s’addormentasse, accendi due candele di cera mischiata con la mirra d’Arabia, poi spegnine una, e suffumica sotto il suo naso, intercambiando…

– Se diamo credito a Erodoto, l’Arabia fu l’unica terra dove si produceva incenso, mirra, cassia e laudano. Però la geografia dell’arte probabilmente era più vasta, comprendeva l’India e l’Africa del Nord.

Sappiamo con certezza che finiti gli studi H alcuni anni serviva in una farmacia che occupava un angolo della casa all’incrocio di due strade costruite dai prigionieri di guerra tedeschi. Quel quartiere imperiale, che come una solida corteccia coprì il tronco di Prospettiva Mosca (Moskovskij Prospekt) da Via delle Grazie (Ulica Blagodatnaja) fino a Via Altai (Ulica Altajskaja), ci piace senza dubbio, altrimenti cosa sarebbe valso il nostro amore per l’Egitto? Dalla fermata della metropolitana fino alla farmacia bisognava andare lungo un giardinetto popoloso, tracciato con precisione ma piacevolmente opportuno nel paesaggio urbano, – il giardinetto non era un ospite lì, perciò si poteva permettere lastrici spaccati e una pattumiera rovesciata accanto ad una panchina. A destra, oltre il flusso di macchine e trolley a senso unico, si stendeva, come fosse di camoscio, una deserta piazzetta di ghiaia con un bronzo statale nel mezzo. Gli abeti azzurri ai suoi lembi parevano sempre alquanto polverosi. Le finestre della farmacia davano all’ala laterale di un palazzo enorme con il basamento di granito, massicci pilastri e fregio scultoreo (vittorie industriali), che per osservarlo un passante con un cappello in testa doveva sorreggere il cappello. Dietro il bancone di legno laccato, negli armadi di vetro regnava un inesorabile ordine da farmacia – unguenti e borse d’acqua calda, sciroppi e la bile bovina, cinture ortopediche e cerottoni di senapa languivano della naturale disponibilità a servire subito. Più in là iniziava il regno di H.

Nel laboratorio lavoravano tre – quattro persone, ma H aveva un angolino tutto suo, recintato dagli altri, come segno del riconoscimento dell’indipendenza e singolarità della sua posizione. Per giunta era l’unico maschio tra il personale, e questo lo aveva distinto da sempre dal suo ambiente. H praticamente non svolgeva mai i suoi doveri diretti (fornire le ricette) – il suo lavoro era rigorosamente una ricerca, che chiaramente lo faceva anomalo per un’istituzione così prosastica come può essere una farmacia. Dalle parole di H sappiamo che all’inizio la direttrice lo rimproverava per le attività spurie, ma presto il rapporto migliorò, – suffumicando con qualche polvere verde H in una mezz’ora tolse dal suo occhio un’albugine congenita.

L’ambiente del laboratorio ci accoglieva ogni volta con un misto di odori talmente esotici, che volente o nolente ci ricordavamo le storie sulle navi cariche di incenso che Nerone faceva bruciare al funerale di Poppea, o della tavola degli aromi dell’imperatore Guang Zung. Appena entrati ci mettevamo i camici bianchi e sorridendo con adulazione alle colleghe di H (formalmente gli estranei non avevano accesso al laboratorio), proseguivamo verso l’angolino di H, gelando dentro per le oscillanti bilance da farmacia e gli armadi la cui fermezza escludeva ogni oscillazione, per l’abbondanza del vetro e la purezza innaturale delle superfici. Il padrone dell’angolino era invariabilmente in uno dei suoi stati caratteristici – o pestava qualcosa in un mortaio di porcellana, pesava sulla bilancia, mescolava viscosamente in una capsula di Petri, fondeva sul fornello a spirito, prendendo contemporaneamente i veloci appunti in un logoro libretto, o con una mirabile assenza fissava la parete e rimaneva assolutamente non ricettivo ai disturbi esterni, – nell’ultimo caso ci toccava aspettare a lungo finche H ci avrebbe fatto caso.

No, non eravamo amici, noi e H. Direi che non conosciamo una persona che si potesse chiamare suo amico. Soltanto ci piaceva sotto qualche pretesto misero, – un brufolo, un’indigestione, un raffreddore – venire al laboratorio e, osservando il suo lavoro, parlare della grandezza dell’Egitto, che nella sua superbia incontestabile di “io fui” e nel sapere cristallino “io sarò” costruiva i suoi sepolcri e templi dei millenni del presente e del futuro, mentre una fievole speranza “io sono” non ha mai avuto a disposizione nulla di più solido del legno compensato. H ci portava sotto il naso un barattolino con qualcosa di umido, da cui passava subito il raffreddore, e annoverava con dettagli persuasivi i sedici componenti della fragranza Kufi con la quale gli egizi propiziavano Ra.

– I libri sacri indiani insegnano che le piante possiedono una coscienza celata, che loro sono capaci di provare piacere e sofferenza.

– Don Juan collegava l’utilizzo di Datura inoxia e Psylocibe mexicana con l’acquisizione di una forza, che lui chiamava guajo, e di Lophophora williamsii con l’acquisizione della saggezza, cioè della conoscenza del modo di vivere corretto.

– Probabilmente, i corpi e le anime delle piante sono capaci di trasmettere ai corpi e alle anime degli umani quello che gli ultimi non possiedono.

– Il fumo di Banisteriopsis caapi emanava uno stupendo aroma di squisiti incensi, e ogni tirata provocava un lento flusso magico di allucinazioni ricercate.

– Gli dei d’Egitto erano capricciosi: nell’elenco delle merci reclamate da Ramsete III si affermava che il colore degli incensi può variare dall’ambrato-nuvoloso a un verde pallido spettrale, simile alla luce lunare.

– L’erbetta del diavolo ha quattro teste. La testa più importante è la radice. Attraverso la radice si impossessa della forza dell’erbetta del diavolo. Lo stelo e la foglia sono la testa che cura le malattie. La terza testa sono i fiori; con il suo aiuto fanno perdere il senno, privano della volontà e anche uccidono. I semi sono la quarta testa, la più potente. Sono loro l’unica parte dell’erbetta del diavolo che è capace di rinforzare il cuore umano.

I discorsi che H iniziava per primo invariabilmente in un modo o in un altro riguardavano varie proprietà degli odori. Tutti gli altri temi lo lasciavano indifferente. Nella concezione del mondo di H – ora ricostruiamo soltanto approssimativamente a base dei suoi singoli giudizi e degli appunti – la teoria degli odori occupava il posto più importante, nel suo discorso riconduceva alle basi di un modello dell’esistenza, radicalmente diverso da quello universalmente accettato. Speriamo che ciò diventi chiaro man mano che ci approssimiamo a quel momento non evidente (intendiamo, le testimonianze indirette), quando H, secondo l’esempio di Epimenide e Pitagora e degli altri uomini del divino talento, raggiunse tale grado di perfezione, al quale un uomo non ha più bisogno del cibo e si mantiene in vita con gli aromi, saziandosene al pari agli immortali.

Una volta H ci raccontò di Lucusta, l’inventrice dei veleni, la quale ricevette da Nerone ricchi poderi e il diritto di avere allievi per un servizio nell’avvelenamento di Britannico: a sua disposizione stavano delle miscele che uccidevano con l’odore, – venivano messi nei cofanetti con i gioielli e nascosti nei mazzi di fiori. Ci sono testimonianze che Caligola, che del lusso si intendeva, che inventò i bagni in oli aromatici caldi o freddi e l’assunzione interna di preziose perle dissolte nell’aceto, lo spargimento dei fiori nelle sale con i soffitti a cassoni girevoli e dispersione degli aromi attraverso i fori, aveva nel suo arsenale anche i profumi-veleno: dopo la sua morte Claudio, non sapendo il limite alla malignità del predecessore, proibì di aprire i cassoni e i cofanetti con le cose private di Caligola. Tutto fu gettato nel mare, ed effettivamente erano talmente pestilenziali, che toccò ripulire le sponde dei paraggi dai pesci morti. In quanto ai tempi un po’ meno remoti, secondo una testimonianza di un cronista cinese Mengci Tangku Ke (lo pseudonimo significa “Audace” e si traduce letteralmente “Colui che si spulcia mentre parla con una tigre”), l’imperatrice Cixi usava secondo i propri capricci vari veleni, tra i quali erano tali, solo l’odore dei quali trasformava un uomo in una scivolosa pozzanghera. Ci stupiva la tenacia di H. Effettivamente il margine una sostanza medicinale e tra un veleno è talmente incerto, ricercato e pieno di talmente tanti segreti e rivelazioni mistiche, che conoscerlo per ogni anima fine e inquirente comporta una grande tentazione.

Come ci è stato noto dopo veglie in biblioteca pervase da spifferi, su quel margine si vive il mistero della vita – morte – risurrezione. Nei misteri di Delfi, Eleusi, Samotrace, nei misteri orfici e quelli egiziani dell’isola di File, il dio, perseverando del suo destino, muore e risorge, – ma ci sono anche gli iniziati a morire e risorgere insieme a lui! Non avevamo un’esperienza esoterica sufficiente per capire come ciò avviene. Trovammo una versione della spiegazione in un volume di I. B. Streltsov, “Il significato delle piante allucinogene in alcune culture arcaiche e culti mistici conservativi”, trovato in una biblioteca, che nessuno aveva letto prima di noi (cosa sorprendente – dovemmo tagliare le pagine), dove in particolare si diceva: “È possibile che esista una forza che favorisce l’oblio del tempo storico personale, dell’individuale misura terrestre dell’iniziato, che agevola il suo passaggio ad un’altra misura, – il tempo mitico, che oggettivamente coincide con l’estasi? È lecito supporre che il fattore iniziale dell’eccitazione, concomitante alla tecnica dell’estasi, la quale materializza il mito nella coscienza individuale, poteva essere haoma. È una pianta allucinogena che secondo le fonti persiane (anche Plutarco testimonia che i sacerdoti invocavano la divinità delle tenebre, Ahriman, tritando la sostanza in un mortaio), permette di oltrepassare la solita soglia di percezione e partire per un viaggio mistico, può assumere un iniziato in una sfera metafisica terribile e incantevole”.

Speriamo che ci siano perdonate le digressioni dall’immediata biografia, lo scopo delle quali è spiegare almeno parzialmente alcuni movimenti e passioni di H, che possono apparire incoerenti.

(Traduzione di Xenia Skiliar)

Pavel Vasiljevič Krusanov è nato nel 1961 a Leningrado. Ha trascorso una parte dell’infanzia in Egitto dove suo padre lavorava alla costruzione della diga di Assuan. Si è laureato in Geografia e Biologia all’Istituto Pedagogico Herzen di Leningrado. Nei primi anni ’80 ha partecipato alle attività dell’underground musicale con il gruppo Absatz. Negli stessi anni collaborava con la rivista non ufficiale “Gastronomičeskaja subbota” (“Il sabato gastronomico”). Ha lavorato come tecnico delle luci per un teatro dei burattini, giardiniere, tecnico di sala di registrazione, ingegnere nel settore pubblicitario, tecnico della stampa offset.
Dal 1989 è stato redattore per varie case editrici (“Vasiljevskij ostrov”, “Triton”, “Severo-zapad”, “Azbuka”, “Limbus press”, “Amfora”), nello stesso anno sono stati pubblicati i suoi primi testi nelle riviste ufficiali.
Nel 1990 esce il primo libro “Gde venku ne leč’” (“Dove non si metterà la ghirlanda”) nel quale si percepisce l’influenza di Faulkner, lo stesso testo, rielaborato, esce nel 2001 sotto il titolo “Noč’ vnutri” (“Notte dentro”).
Dall’inizio degli anni 90 la maniera di Krusanov si trasforma più volte, prima verso sofisticate costruzioni postmoderniste con “Znaki otličija” (“Segni di riconoscimento”) 1995, più tardi verso il realismo alternativo e il cosiddetto “romanzo dell’impero”. Negli anni 1996-97 affascinato dalla tradizione epica dei popoli finnici Krusanov crea un romanzo epico “Runopevec” (“Cantore delle rune”) a base del corpus della “Kalevala” raccolto da Elias Lönnrot. Hanno seguito “Il morso dell’angelo” (2001), “Bom bom” (2002, bestseller nazionale nel 2003), “Il buco americano” (2005).

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