I Racconti Moderni sono parodie della realtà, raccontate in modo volutamente grottesco.
Persone, luoghi, fatti e riferimenti sono da considerare opera di fantasia, essendo del tutto inventati o estrapolati dal contesto in cui si sono svolti e poi riadattati.

Eravamo una piccola ma ben funzionante nazione.
Gente tranquilla e laboriosa, semplice e orgogliosa di esserlo, forse un po’ dura e chiusa.
Viene da ridere a pensarci ora.
Qualche problema che spuntava ogni tanto, un po’ di delinquenza sparsa, succede anche nelle migliori famiglie e poi si sa come sono le persone. Ma vivevamo bene, placidamente.
Un giorno il governo decise che sarebbero state abolite banconote e monete, spiegò che bisognava modernizzarsi e che la decisione avrebbe reso impossibili rapine e scippi ed eliminato l’evasione fiscale; in cambio furono forniti a tutti gli abitanti piccoli apparecchi elettronici per il trasferimento del denaro, anche per la transazione più ridicola. Erano semplici da usare e sembrò una buona idea. Presto anche vecchi e scettici si abituarono al cambiamento.
Un anno dopo un’altra novità venne introdotta da chi ci governava: da lì in poi in seguito a ogni transizione si sarebbe dovuto dare obbligatoriamente un giudizio sul servizio avuto. I voti potevano variare da uno a otto e si potevano facoltativamente motivare. Ogni voto sarebbe stata anonimo e archiviato nel sistema centrale. Ogni locale, ogni impresa, ogni negozio, ogni prestazione pagata, avrebbero dovuto essere valutati al massimo ventiquattr’ore dopo la transazione, per legge. Per evitare accanimenti lo stesso apparecchio poteva dare solo un giudizio al mese per ogni esercizio. Le eccezioni erano pochissime e adeguatamente elencate.
Tutta la popolazione attiva diventò giudice e giudicata. Si spiegò che si voleva migliorare la qualità dei servizi e l’impegno sul lavoro. Non sembrò una cattiva idea.
Una sorta di orgogliosa e sana rivalità si diffuse ovunque.
Poi venne fuori che dopo il primo mese di prova sarebbero state stilate classifiche per ogni categoria professionale in cui era catalogata l’impresa. Un anno dopo sarebbero state eliminate e rimpiazzate le ultime classificate, il 10% per ogni categoria.  Si diceva che lo facevano per movimentare il mercato del lavoro con l’eliminazione dei peggiori attraverso una perenne democrazia giudicativa.
Gli abitanti presero la cosa sul serio, esercitavano il loro potere come un gioco sacro, fuori dai negozi o nelle case si poteva passare anche mezz’ora a scegliere il giudizio da dare.
Un fervore inaspettato scosse il paese. Si andava a comprare, si provavano nuovi posti per il gusto di poterli giudicare, ogni lavoratore nell’esercizio delle sue sacrosante funzioni era concentrato, gentile e efficiente nei suoi limiti.
I titolari controllavano i dipendenti licenziando gli indegni e premiando i migliori. La gara era iniziata come una corsa all’oro.
Qualcuno osò far notare che forse ci stavamo spingendo troppo oltre e che potevano esserci effetti incalcolabili, che ci vuole maturità per giudicare gli altri e che ogni voto era inevitabilmente arbitrario, soggettivo, umano in tutti i suoi significati; a queste persone veniva risposto che avevano paura di essere le prime a saltare.
La storia degli umani insegna che spesso a chi riesce a prevedere il futuro gli viene dato nella migliore delle ipotesi dello stronzo.
In realtà fu davvero l’inizio della fine.
Si iniziò a voler affondare i rivali preventivamente, si andava per curiosità nei posti considerati peggiori per potersene accertare, spesso i giudizi andavano a colpire una persona per pura antipatia o aspetto estetico.
I giudizi erano sempre più estremi e sospetti, le classifiche pubbliche e in continuo aggiornamento.
Tutti si sentivano costantemente sotto esame; paranoie, nevrosi e ansie si scatenarono fra la popolazione.
La situazione diventò quasi subito grottesca, esagerata e incontrollabile.
Se chiamavi l’idraulico perché avevi il cesso intasato era possibile che quello si presentasse a casa con dei pasticcini e si mettesse a fare dieci minuti di apprezzamenti sull’arredamento e tu avevi il water che straboccava merda e l’avresti preso a calci.
Erano passati cinque mesi dalla partenza.
Mi venne la febbre con i primi freddi, un po’ d’influenza come avevo avuto un paio di anni prima. Qualche giorno e la situazione tornò alla normalità; andando a ritirare il certificato medico il dottore mi guardò con aria grave e con tono da adunata mi disse: “le comunico con gioia e orgoglio che la malattia che l’ha attaccata è stata ufficialmente debellata. I resti di quelli che furono potenti virus, risalgono in disordine e senza speranza il sistema immunitario che avevano disceso con orgogliosa sicurezza. Il suo dottore non l’ha mai abbandonata, il suo dottore ha sofferto, lottato con lei, intervenendo fieramente nella battaglia sostenuta senza esitazione alcuna armato della fede incrollabile nella propria scienza.”
Al fornaio chiedevi due etti di pane e te ne dava tre al solito prezzo, fra reverenze eccessive e complimenti ipocriti.
Sette mesi erano passati dall’inizio del gioco il pomeriggio che osai chiedere una rosetta e tornai a casa con due filoni da chilo, trenta grissini e mezza pizza “per permetterle di assaporare la qualità dei nostri prodotti genuini”. Si dimenticò del panino e detti un quattro. Volevo solo mangiare un boccone.
In compenso non era male andare al bordello. Uscivi fuori con l’autostima rigenerata, mai visto delle prostitute fingere e impegnarsi così. Ti sentivi uno stallone.
Al nono mese venne fuori che qualcuno corrompeva i clienti. Che a loro volta usavano spesso il denaro per corrompere i loro clienti. Spicciolate andavano e tornavano in un circuito vizioso e malato.
Un anno passa in fretta. E non bisogna dimenticarsi che la paura è una parabola che raggiunto l’apice scende prendendo strade spesso impreviste. A un certo punto si smette di averne, si può arrivare ad anelare alla fine. Il malato può smettere di temere la morte, il soldato l’esercito nemico.
Fu in una sera come troppe in un ristorante ormai condannato alla revoca della licenza, frequentato da pochi fedeli abitudinari che esplose la bolla. Il cameriere tirò la zuppa in faccia a un cliente urlando “tanto ormai siamo fottuti!”. Peccato che per lo stesso motivo il cuoco avesse riempito di peperoncino la pietanza e il malcapitato iniziò a urlare come un matto correndo per il locale.
Il giorno dopo un falegname nella medesima situazione dette a un cliente, di cui sospettava un brutto giudizio, una tavola di legno sulla testa, dicendo: “visto come sono solidi i nostri prodotti che denigra tanto?”
Tempo poco e si venne a sapere degli episodi.
Eravamo esasperati, più o meno tutti, non ne potevamo più di un mondo dove tutto viene giudicato e classificato, indipendentemente dalla situazione in cui ci si trovava.
I lavoratori che da lì a venti giorni avrebbero perso il posto si riversarono nelle strade e con grande stupore si accorsero di essere seguiti da molti altri. Provocavano i passanti, prendevano a calci tutto quel che trovavano, urlavano e saltavano sopra le vetture che passavano.
Due giorni durò quell’anarchico assedio al niente.
Poi si diressero verso il palazzo del governo, i poliziotti sembrarono far poco per fermarli, entrarono nella stanza del computer centrale, là dove finivano i giudizi e venivano stilate le classiche e bruciarono tutto.
Una liberazione immensa sembrò divampare nelle strade.
Da quel giorno siamo passati al baratto, visto che non avevamo nemmeno più una valuta contante.
E per evitare problemi facciamo quasi tutto tramite intermediari, in modo da non sapere nemmeno con chi scambiano i frutti del nostro lavoro.

NESSUN COMMENTO

LASCIA UN COMMENTO