UNA LETTURA DI BARTLEBY THE SCRIVENER. A STORY OF WALL STREET

Il nome di Herman Melville è da sempre associato a quello del suo più grande romanzo, Moby Dick (or The wale), pubblicato nel 1851,in pieno American Renaissance: sono anni di fermento letterario, che vedono la pubblicazione di alcune delle opere cardine della letteratura americana quali The Scarlet Letter di Hawthorne (1850), Walden di Thoreau, Leaves of grass di Whitman (nella sua prima edizione, 1855). Meno invece si parla dei racconti di Melville, molti dei quali raccolti in Piazza Tales (1856), fra i quali figura, nel suo titolo originale, Bartleby the Scrivener. A story of Wall Street, indubitabilmente uno dei più riusciti, apparso nel 1853, anonimo e in due puntate sulla rivista Putnam’s Monthly Magazine

Il racconto, narrato in prima persona, si configura come il resoconto dell’esperienza esistenziale prima che lavorativa, di un ordinario avvocato di Wall Street e del suo incontro-scontro con un bizzarro personaggio, Bartleby, che decide di impiegare nel suo ufficio come scrivano. Nulla di più scontato, si direbbe. Se non fosse che l’ “irrimediabilmente perduto” Bartleby, di cui non si conosce nulla se non il nome, a qualsiasi domanda, richiesta o ordine impartitogli dal suo principale, risponde in un modo spiazzante, educato ma deciso, sprezzante nel suo fermo garbo: “I would prefer no to” o, al presente, “I prefer not to”. Nello sconcerto generale e quotidiano, tanto dell’avvocato quanto degli altri impiegati, Bartleby conserverà questo atteggiamento di passiva indolenza, di afasia e di agrafia (perché, ad un certo punto smette anche di fare il suo lavoro, ossia scrivere) che lo condurrà ad una morte solitaria, in prigione, reo di avere occupato abusivamente il pianerottolo dell’ufficio dell’avvocato nel quale aveva cominciato ad abitare, e di aver destato l’ira degli inquilini dello stabilimento che pertanto, lo avevano denunciato alla polizia. Qualche tempo dopo la morte di Bartleby, l’avvocato, che aveva cercato, invano, di proteggerlo, si imbatte in un rumour che svela in parte il passato del misterioso scrivano: Bartleby era stato un impiegato in un ufficio che raccoglieva e distruggeva lettere smarrite. La fine è sancita da un inspiegabile e irrelato grido di adesione da parte dell’avvocato rispetto alla miserabile vicenda di cui è stato testimone: “Oh Bartleby! Oh umanità!”. Non una parola di più. Non una postilla d’autore, un’appendice, un commento.

All’altezza cronologica in cui è scritto il breve racconto melvilliano non può non apparire sorprendentemente moderno. Bartleby è un racconto singolare, spiazzante, narrato quasi per scorci e che si consuma prevalentemente in uno spazio asfittico e claustrofobico, che fa da controcanto alla spasmodica folla che suole brulicare a Wall Street. Un racconto in cui la narrazione indulge a qualche sprazzo di comicità (ad esempio nella descrizione degli altri impiegati nell’ufficio dell’avvocato, Turkey, Nippers e Ginger Nut ) non senza un’eco di dickensiana memoria; ma è una comicità che vira inevitabilmente verso la tragicità e la problematicità, in un discorso che pur partendo dal contingente, da un tempo e uno spazio ben definiti, tratta del destino dell’individuo privato, dell’aporia che si offre come unica possibilità alle insanabili contraddizioni del reale, alla condizione assoluta delle cose presenti. E’ proprio a partire da questa contraddizione di fondo che la narrazione prende forma, essendo il testo essenzialmente costruito sulla negazione che si articola in due modalità: quella più propriamente linguistico-semantica della litote (ricorrono frequentemente nel testo espressioni come “not unemployed”, “not unknown”, not inhumane, oltre naturalmente al già citato “I prefer not to), e quella tematica dell’incontro con l’alterità inconoscibile. L’ indubbia curiosità che lo scrivano suscita nel narratore e nel lettore è percorsa da un vago senso di penosa compassione che tenta di stornare i pericoli dell’adesione o, peggio, dell’immedesimazione: l’incontro con l’alterità è tragico, ma di una tragicità che non si consuma nell’azione o nel sangue, bensì nella fissità spiazzante delle risposta dello scrivano, sempre la stessa. I prefer not to. Persino l’espediente dell’explicit, che muove dalla necessità come di un chiarimento, risulta totalmente irrelato rispetto ai fatti narrati: aggiunge qualche notizia in più sul passato di Bartleby ma, di fatto, non risolve nulla. Esclamando: “Oh Bartleby! Oh umanità!”, l’avvocato si illude di aver compreso Bartleby uomo alla luce di quel nesso che ha creduto di poter rintracciare tra gli avvenimenti di cui è stato testimone e il passato misterioso dello scrivano. Il finale aperto sembra suggerire che la conclusione a cui è giunto l’avvocato è solo apparente. Sfugge al lettore il nesso fra la postilla e il racconto: si procede per ipotesi, per intuizioni oblique, per congetture. Il racconto non ha una soluzione, non vuole averne. Così come, sembra chiosare Melville, la nostra esistenza non ne ha: sembra risolversi nel nulla. Anche la morte, ha poco di definitivo: persino un personaggio come Bartleby, che non ha interazioni sociali, che sembra privo di passato, che ha vissuto un eterno presente privandosi dell’ipotesi di un futuro plausibile, non conclude la sua esistenza in modo definitivo. L’esclamazione finale dell’avvocato è l’ultima negazione presente nel racconto, l’ultimo evidente capovolgimento della realtà: non è comprensione del dolore altrui o intuizione di senso, ma paternalistica pietà, superficiale compassione.

In questo racconto, in definitiva, Melville sembra smascherare impietosamente l’inganno che si cela dietro le cose e le esistenze, mostrandone gli aspetti contraddittori che, come polarità inconciliabili eppure terribilmente sodali nella loro sincronia, instaurano un moto perpetuamente dialettico che oscilla tra vitalismo e alienazione, lotta e resistenza passiva, utopia e rassegnazione. Opponendo il suo deciso “no” all’ottimistico “yes” dei trascendentalisti suoi contemporanei, Melville esplora e tocca con mano e quasi presagisce il fallimento di un sogno, The American Dream, il cui orizzonte di attesa, così proteso verso il futuro, è infinitamente spostabile e pertanto inesorabilmente irraggiungibile. Nel sodalizio delle opposizioni fino alla morte il mutismo di Bartleby diventa il grido dell’uomo moderno.

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