É una notte di fine estate, come ogni anno l’estate finisce ed è curioso sentirne sempre ed ancora il dolore, l’infinita tristezza che ogni fine, ogni morte porta con sé.
Siamo seduti ai piedi di una torre costruita chissà quando, in giorni molto lontani da questi da un qualche re ispanico, forse geloso di questo mare che non è e mai sarà di nessuno.
Un avamposto regale su una distesa blu che domina e sovrasta un pezzo di mondo minuscolo ed insignificante ma terribilmente caro a noi che ci camminiamo sopra.
Sotto i nostri piedi, il vuoto.
Logos suona la chitarra, King sembra assorto nei suoi pensieri, ogni tanto dà cenni di impazienza, Logos deve aver sbagliato qualche accordo.
– Chi mi fa un filtro?
Lotto contro il vento, è la seconda volta che vola via tutto. Impreco.
Fumiamo con le spalle appoggiate alla pietra ruvida ancora tiepida di sole del sud.
Come di consueto iniziano le nostre disquisizioni da strapazzo sui temi amati. La vita, le stelle, la musica, la politica, la religione, la filosofia, il senso – ce n’è forse uno? -, il futuro, la bellezza di questo posto insulso dal quale mai vorremmo separarci, eppure lo faremo, dobbiamo, possiamo forse scegliere?
Siamo tre idealisti, tre filosofoidi postcontemporanei e provinciali; parliamo fino allo sfinimento. Sono anni che passiamo le notti così, in questo modo assurdo, a pensare, a scervellarci, a dare la nostra versione, la nostra lettura del mondo. Come se servisse a qualcosa!
Queste nostre parole si perdono nel vento, nessuno le sente, si dissolveranno mute e inconsistenti. Eppure in cuor nostro ci speriamo, ci vogliamo ancora credere in questo sogno ingenuo e puerile.
Ci troviamo spesso in disaccordo, soprattutto io e Logos, giacché entrambi tendiamo all’estremismo ideologico. Abbiamo creato i nostri credo, le nostre religioni, cosmogonie deliranti e sincretismi privi di senso. Degli idioti! Dei creativi!
É buio fondo. Una nuvola rossa ingoia lentamente l’ultimo spicchio di luna. Il vento si fa più freddo ma è ancora presto per andare, ci sono ancora tante parole da spendere, anche questa sera. Ed è così bello qui, in questo luogo quasi senza tempo. Medicamento per l’anima.
Quante volte saremmo venuti fin quassù? Non lo so più. Eppure stasera c’è qualcosa di amaro nell’aria, una nota di desolazione; sarà che fra non molto non sarò più qui, via, in un altro mondo, dove io non sono più io e sarò un’altra diversa da me. Ah! Ma non bisogna pensarci, non adesso, non oggi. C’è un tempo per tutto o almeno così ci piace credere.
Domani. Domani ci penseremo. Io riprenderò il mio viaggio sconclusionato, il re salperà all’avventura fra qualche giorno mentre Logos rimarrà qui a custodire le nostre memorie e i nostri luoghi sacri.
Non c’è bisogno di dirselo ma tutti e tre pensiamo la stessa cosa, è forse questa l’ultima volta, l’ultima sera insieme prima di chissà quanto tempo, con noi uguali a noi stessi, un attimo prima che la vita ci travolga e ci trasfiguri in volto. Lo sappiamo, lo sappiamo bene ma vogliamo non sapere, non vedere, almeno per questa notte ancora.
– Avete sentito? – Chiedo.
– Dev’essere il vento. – Dice Logos, il pragmatico e razionalissimo Logos.
– Ecco. Di nuovo. Ma non avete sentito? –
– Cosa c’è? – Chiede King.
– Questo rumore, sembrano voci.- Gli occhi si fanno attenti nell’oscurità.
I due si scambiano segni d’intesa, se la ridono.
– In effetti qui – prosegue il nostro re – devono essere successe molte cose, robe sanguinolente, esistono molte storie, penso siano morte parecchie persone in tempi andati. Saranno le loro anime che cercano vendetta.- Ride.
Un brivido scuote la schiena. Il vento si fa ululato, vedo ombre che non ci sono, figure inesistenti che si muovono furtive nel buio.
– Andiamocene. É tardi e il vento sta rinforzando. – Faccio io.
I due continuano a sghignazzare. Sfottono.
– Aspetta. L’ho sentito anche io, viene da là dietro, dietro la torre. – Logos è diventato serio, la sua voce trema.
– Ma non è niente. – Finge tranquillità.
– Ecco, ancora. Non ci credo, non sentite? –
– Va bene. Andiamocene. – Chiude secco King.
La luna non c’è più, sparita da un pezzo. Ora ci aspetta una discesa nell’oscurità, un passo falso e si finisce giù, dritti, dritti, a picco nello strapiombo.
Cos’è questa sensazione di metallo che aleggia tutt’intorno?
Faccio strada io. Stiamo zitti, persi, ognuno dentro sé.
– Thud.- Un tonfo.
– Cos’è? – Oh, ma che cazzo è? – Ci siete? – Ajò, io voglio andare a casa. – Minchia, Goppay. –
– Basta. Sarà una pietra che è caduta giù. – Il re ha sempre ragione.
Vaghiamo tra rami scricchiolanti e cespugli pungenti. Ci stiamo perdendo o ci siam già persi.
Il sentiero appena abbozzato si divide in due. E adesso? Da quale parte andiamo?
Giriamo intorno incerti, uno prende una via, lo seguiamo in silenzio.
Sembra di essere in un luogo alieno e oscuro, per un tratto non vediamo neanche più il mare, pare di esser scesi giù fin sotto le viscere della terra.
Vaghiamo, camminiamo, in un’oscura notte di fine settembre. Si sale e si scende, e pensare che basterebbe così poco per ritornare da dove si è arrivati. Il cielo si fa terso.
Da quanto camminiamo? Dove siamo?
Verrebbe da urlare. Una pinza sul cuore.
Un altro tonfo. Pietra che cade giù. Un ultimo sguardo alla luna.
É l’oblio.

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