Nella stanza illuminata di poca, pallida luce notturna filtrata attraverso i vetri, il suo umore rapidamente avvizzì, come dissanguato. Di colpo si ritrovò lugubre nell’anima, ed avvicinandosi ai vetri vide la pioggia amica, venuta simile a stare.

“Non potremmo affidare la storia ai piccoli umori quotidiani degli uomini. Essi potranno solo tacciare di follia i gesti netti, le azioni efficaci. Ma nell’intimo, nascosti, alcuni comprenderanno, e sfoglieranno le pagine delle opere nel tempo, illuminati dall’assenza di rimpianto per le piccole cose. Nessun uomo può anteporsi a ciò che deve avvenire. Questo sangue lava la malattia, strozza i rigurgiti del tempo che torna sui suoi passi. Le anime semplici si aggrappano ai pochi averi, ai gesti che vedono aggraziati dei loro amati, all’abitudine.
Quale confine si alza tra questa purificazione e le guerre di fama eroica degli eserciti, di conquista, di unificazione? Questa è una guerra sacra, poiché è la virtù a combattere.
Non è vendetta ma cura. Queste teste cadono per proteggere un pargolo puro.
I morbi fermentano, la malattia prolifera, la lama pulisce, amputa, guarisce. È forse meglio salvare un arto malato, al quale certo terremo, o è forse meglio tagliare quella carne in putrefazione per salvare il corpo, la vita? Anche quelle scritture attribuite a Dio invitano a cavare l’occhio, a tagliare la mano, pur di salvare la purezza.
Dunque pianto, terrore, sono miseri spostamenti dell’animo ingordo, cieco, inetto. La malattia è pronta a tornare più forte e fatale. Perciò questi piccoli uomini dovranno apprendere che la storia non ha pena.
Quando la mano del tempo si è fermata? Quando la spada, il fucile, l’eccitazione secolare del mondo hanno atteso il passaggio dei sentimenti, i tempi e le parole della volontà comoda degli uomini?
Non odio questi uomini in sé, ma loro sono portatori del germe del passato, essi sono una minaccia a questo corpo, essi sono blasfemi agli occhi di questo dio nuovo e creatore.
Se la cura non andrà profonda nei tessuti, la malattia riesploderà, e peggiori sofferenze si affacceranno. Per questo…” una voce si amalgamò alla stanza fendendo i pensieri di Maximilien:
− Robespierre.
Poi attese attenzione. L’incorruttibile si voltò e attese a sua volta che la voce continuasse.
− Robespierre puoi seguirmi?
Era Saint-Just. Robespierre volle capire meglio:
− Cosa è successo? È molto tardi.
− Devi vedere una cosa.
− Cosa devo vedere?
− Per favore seguimi Maximilienne.
Robespierre esitò qualche attimo, poi si incamminò seguendolo senza parlare.
Si diressero verso rue Saint-Honoré, al club dei Giacobini. Salendo le scale si fece vivo un suono di molte parole, la nuvola di voci si addensava ad ogni manciata di gradini. Per un momento Maximilien ebbe paura, la scala era buia, e quel suono emanava un’inquietudine metallica e allo stesso tempo traspariva fermezza, quasi rabbiosa. Fu solo un secondo, poi immaginò che fosse in corso una discussione animata. Temeva però che fosse nato qualche pericolo, qualche complotto, che la rivoluzione fosse minacciata.
Quando aprirono la porta della stanza le voci esplosero e si rovesciarono addosso ai due. Entrando Robespierre riconobbe nettamente nel trambusto alcune parole: “cahiers de doléances” precedute da qualche imprecazione, “diritto divino”, altre maledizioni al popolo, “corvée”. “Quegli animali non sono liberi” sentì ancora, balzando perplesso.
Quando fu dentro, mentre qualcuno che non aveva visto chiudeva immediatamente la porta, Robespierre vide questo: la luce sommessa delle candele arrivava quasi integra alle pareti della stanza. L’ambiente non era molto esteso, nessun particolare sfuggiva all’occhio sotto la responsabilità della luce. Nella stanza c’erano Couthon, Barère, Carnot, e Prieur de la Côte-d’Or. Gli ultimi due erano al centro della stanza, come mortificati, con le mani raccolte. Gli altri si tenevano a pochi passi dall’ingresso. La stanza era la biblioteca, le pareti erano ricoperte di scaffali. Entro pochi secondi Robespierre raccolse la sua attenzione e si rese conto del perché era dovuto recarsi al club. Negli scaffali non erano più riposti libri ma teste. Queste teste parlavano ininterrottamente. Appena questo gli fu chiaro, Maximilien ebbe un leggero mancamento subito dopo aver osservato attentamente i particolari di quella visione irreale: aveva guardato le bocche, udito le parole spezzate da altre parole, visto le labbra muoversi, osservato i denti, gli occhi, la carne recisa del collo. Dopo aver spostato gli occhi più volte tra le teste, la vista fu disturbata due o tre volte, si appannava, gli occhi si contraevano in modo sbilenco. Maximilien borbottò qualcosa di incomprensibile, restò in silenzio qualche attimo, e si rivolse ai componenti del Comitato di salute pubblica, vistosamente perplesso:
− Cos’è?
− Teste – Rispose Barère.
− Non mi sembra questa la cosa meno chiara – Esclamò polemico Robespierre.
− Sono le teste dei condannati alla ghigliottina dal tribunale. Non smettono di parlare. È un problema che abbiamo avuto dall’inizio delle decapitazioni, ed è rimasto nascosto perché fino ad ora abbiamo tentato delle soluzioni, anche se provvisorie. Ma ora non abbiamo più idea di come liberarcene.
− Seppellitele! Esclamò l’incorruttibile.
− Lo abbiamo fatto Maximilien, – riprese Couthon – ma la loro voce si sente, è come inestinguibile. Fin quando a sentirla era stata qualche vedova abitudinaria del cimitero è stato facile farla passare per qualche fantasia, ma la cosa si è diffusa e abbiamo dovuto alimentare le superstizioni per non far venire fuori la verità, per quanto resti difficile da credere che qualcuno abbia sentito parlare in quel luogo.
− Dovreste essere decapitati anche voi! La rivoluzione non caccia streghe, né le crea. Liberatevene, sparatele con i cannoni contro gli austriaci e i vandeani per restituirgli l’infamia, ma fatele tacere! Esclamò Robespierre, uscendo dalla compostezza come per sfogare le sensazioni accumulate nel corpo dopo quella visione incredibile.
Ci fu silenzio tra loro per un po’, Robespierre sembrava riflettere profondamente fissando il pavimento. Riprese d’improvviso:
− Come…
Ma Saint-Just lo interruppe:
− Cos’altro potevamo fare oltre ad accatastarle qui? Noi siamo perplessi quanto te. Cosa c’era da fare? Conosci una soluzione più efficace della morte? Abbiamo applicato la soluzione più adatta agli uomini: uccidere.
− Spaccare questi crani ad accettate! – traboccò l’incorruttibile – Sono forse morti? Qualcuno qui è in grado di stabilire se sono morti?
Nessuno rispose.
− Che cos’è? – ricominciò Maximilièn con voce calma, quasi sussurrante, mentre la nausea leggera a tratti boccheggiava nel suo stomaco e si sentiva mancare – Che cos’è questo?
Rimase a braccio teso indicando gli scaffali e fissando Saint-Just con la faccia contratta dalla rabbia, dal disgusto, dallo spavento. Sudava. Poi chinando la testa si portò la mano alla fronte coprendosi gli occhi, come se la sua testa stesse scoppiando. Tutti rimasero in silenzio, ma le voci delle teste continuavano incessanti, un suono continuo e nervoso, mentre Robespierre sentiva il mal di mare, più volte credette di svenire, il suo corpo era rigido di nervosismo. Le voci continuavano a consumare il suo udito, e il loro volume sembrava aumentare. “Popolo”, “Marat”, “campagne”, “vendetta” aveva appena riconosciuto tra le onde acustiche, e la consapevolezza di non poter fermare quei suoni al più presto lievitava il suo nervosismo, che irrigidiva sempre più il suo corpo e lo faceva dondolare come un albero al vento per le vertigini. Poi esplose in un urlo disumano:
− Maledizione! Maledizione! Nient’altro che una maledizione!
− Robespierre parlate come un superstizioso – intervenne Couthon – ora calmatevi.
− Perché mi avete svelato questo? Perché? – Maximilien fece una breve pausa – Cosa intendete fare ora?
− Non lo sappiamo – rispose Saint-Just – certamente non possono restare qui, il rumore è troppo forte.
− Ma bisogna farle tacere! – Disse l’incorruttibile come implorandolo – in un altro luogo non cambia, il problema non è la loro esistenza ma i loro suoni.
− Vanno imbavagliate! – propose Carnot.
− Bruciamole! Incitò Prieur.
− L’ho già fatto io con una testa – intervenne Barère – il suono della voce è rimasto indelebile nell’aria, e ho appreso che una volta bruciata a quel punto il problema è incancellabile: l’aria continuava a fare discorsi su Luigi Capeto. Per fortuna è successo nelle campagne, ho trasportato la testa in un sacco in piena notte. Sono tornato lì una mattina, il suono sembra rimasto a vagare intorno a un albero lì vicino.
A quel punto tutti furono presi da sconforto. Si sentivano braccati da un rompicapo, da un guaio troppo grande per essere gestito e compreso.
− Credevi di essertene liberato, vero?
Robespierre spalancò gli occhi, guardò Saint-Just e rispose:
− Tutti voi avete creduto!
− Ma questa è una pura stregoneria che rende vana qualsiasi scelta, il limite in cui si infrangono le certezze.
− Stregoneria? Attendete prima di retrocedere, così come avete appena chiesto a me.
− Non c’è nulla da fare, il passato ci sbeffeggia, annuncia di voler restare. Sarebbe stato troppo semplice concludere tutto così, una lama, un giudizio, e un po’ di determinazione. Apprendiamo invece che il più spontaneo prodotto del tempo, il passato, resta, contraddicendo il suo nome.
− Era forse meglio l’immobilità? Questa esplosione è stato un frutto naturale e spontaneo, è nato come nasce la vita: non è reversibile, non si può arrestare, ed è sacra. Questi scaffali offrono una visione incredibile come incredibili sono gli eventi ai quali stiamo assistendo, offerti dalla rivoluzione.
− Questa visione ti dà torto Maximilièn, torto. Abbiamo creduto nell’incredibile potenziale rigenerativo della rivoluzione, alla sua capacità di sconvolgimento, abbiamo immaginato una novità che non si mostra ai nostri occhi. Questa stregoneria cancella la ragione poiché si beffa di lei. La ragione, la potenza divina dell’uomo! Dov’è finita? Tre passi nel futuro abbiamo fatto, solo tre passi, per accorgerci che camminiamo sulle membra vive del passato. Non potremo azzittirli, Maximilièn, non potremo. Queste teste resteranno ad accompagnarci. Come abbiamo potuto illuderci di cambiare tutto con un colpo di rabbia e ragione?
− Basta Louis, taci! Traditore!
− Tu neghi tutta l’umanità di questo evento spaventoso.
− Noi non potremo fermarci, sposteremo un passo più avanti la storia, anche con questo sottofondo di voci. Così come è crollato il vecchio mondo dovranno tacere queste parole, oggi o domani, per nostra mano o per la mano di coloro che verranno. Questa forza rigeneratrice deve restare viva, deve essere la divinità che guida la nazione, colei che si occuperà di rendere non necessario il terrore.
− Come puoi crederlo Maximilièn? Coloro che portavano queste teste hanno assistito al giorno dell’ira, della fine e della genesi nell’arco di uno stesso sole, e non hanno creduto. Quel Cristo che diede mandato a quelli che oggi sono i nemici della rivoluzione, che genera la forza della Vandea e della superstizione, ha dettato gli stessi assunti: solo pochi comprenderanno, gli altri saranno la forza della morte.
− Basta. Staremo a vedere Saint-Just.
Robespierre visibilmente intenzionato a sbrigare la faccenda con rapidità a quel punto riprese con più normalità:
− È evidente a questo punto che ci vorrà del tempo per risolvere tutto, e se il comitato non deve fermarsi, nei prossimi giorni queste teste aumenteranno. Occorre portarle in un altro luogo, più capiente e più isolato. Io propongo la Conciergerie.
− Queste teste allora si uniranno alle altre. La Conciergerie contiene già altre teste – Disse Saint-Just, il quale cominciò a ridere come impazzito, ma nessuno lo seguiva in questa ilarità o squilibrio.
Tutti furono d’accordo e le teste che riempivano i muri della stanza furono caricate in fretta su un carro, Couthon, Barère, Carnot, Prieur de la Côte-d’Or, Saint-Just e Robespierre lo seguirono, a loro volta trainati da cavalli. Si diressero verso la Conciergerie al suono delle frustate secche e decise dei cocchieri. L’alone lontano dell’alba vellutava la città. Robespierre fissava Parigi scorrere sotto forma di suolo, e non pensava più, dimenticando dopo poco la propria collocazione, dimenticando la smania di fuggire dall’attenzione di Parigi che minacciosa sembrava sbucare a ogni minimo movimento, anche assente e simulato.
Tutta la forza sembrava perdersi, tutta la forza della sua mente, del suo corpo, delle sue visioni incredibili e inestinguibili, delle fiamme indomabili del suo animo, tutta la forza si metteva a riposo lentamente, sul fondo del suo corpo che come denutrito sentiva spegnersi. Nelle sue vene il sangue sembrava non spingere. Una calma di morte gli entrava dentro, una calma triste. Qualcosa lo riportava tra gli uomini, fuori dall’eternità della storia, dall’eternità del coraggio. Non paura, sconforto o ripudio per i suoi gesti, ma dell’altro: un attimo di sospensione, di pace malinconica: la mortalità ballava di nuovo intorno alla sua posizione eretta.
Lontano anche il pianto, la necessità dei gesti, la bellezza delle parole.

“La Consiergerie si metterà in grembo la beffa, fino a nuova soluzione, ma io ho visto, e questo mi annienta, così come avvilisce i passi dell’umanità.”

Si udì un sonoro trambusto, e l’attenzione dell’incorruttibile si rifece subito presente: il carro con le teste si era ribaltato, sfasciato, e le teste si riversarono in strada. Robespierre fu colto e spiazzato dalla scena e si irrigidì come una lapide. Si gettò immediatamente fuori dalla carrozza e rimase immobile in piedi, vedendo le teste, che ora sembravano innumerevoli oltremisura, correre velocissime nelle strade e sparire nelle ramificazioni dei vicoli. Erano tante da ricoprire il suolo. Correvano e si espandevano: le loro voci si riunivano a Parigi, rinfacciavano il loro atto non scelto, tornavano tra gli uomini, e dall’alto non si sarebbe distinto nient’altro che un brulicare di forme sconosciute e simili ad altre nella storia.

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