Non credo di avere una vita particolarmente avvincente da raccontare, al pari della maggioranza degli uomini. Un susseguirsi di attimi – amati, perduti, sprecati, incompresi, goduti – fino ad arrivare a questo, in cui fermo tempo, aria e cuore per potervi parlare del dilemma che in una frazione di secondo si agita dentro me come un fiume in piena che sta per rompere gli argini.
Sin da piccolo non sono mai riuscito a credere in Dio. Era più forte di me, nonostante la mia educazione da buon cattolico, nonostante la mia famiglia ci tenesse prima di rinunciare definitivamente a quella speranza. L’idea di una giustizia divina dopo la morte mi ha sempre messo tristezza, l’ho sempre considerata una consolazione per i perdenti, un sogno per i perseguitati, una speranza per illusi. Al contrario sono sempre stato un ammiratore della giustizia umana, del tentativo talvolta pretenzioso ma essenziale di mettere ordine alle cose, di provare a dare un senso al caos, un’ultima parola a diatribe teoricamente infinite.
Sarei dovuto diventare giudice ma mi persi durante gli studi e non rimase altro che ammirare chi ce l’aveva fatta e si trovava a decretare colpevoli e innocenti, a decidere risarcimenti, pene o assoluzioni, come fossero uomini fuori dall’umanità, custodi dei principi di ogni società.
Mi limitai a diventare arbitro. Il calcio, quello sport caotico che da sempre si è impossessato della razionalità di molti adepti e nel quale i romantici ci intravedono una metafora della vita, mi aveva sempre appassionato.
Provai a giocare ma poi capii che il mio ruolo era un altro. Né da una parte, né dall’altra. In mezzo.
A decidere, a beccarsi insulti, contestazioni, dietrologie gratuite. A dover decretare in una frazione di secondo se una gamba ha toccato l’altra o la palla o niente, se una manata è stata un gesto premeditato e volontario o un semplice incidente fra i corpi durante un’azione.
Mi piaceva svolgere quel ruolo ingrato e indispensabile.
Partii dal basso, come si deve. Da campi che sembravano stati seminati a patate fino a due giorni prima, fra gente di provincia che urlava le peggiori offese in dialetto attaccate alla fragile rete che faceva da confine fra i mondi e giocatori scarsi e violenti che pensavano di risolvere tutto facendo i bulli.
Non avevo grossa tenuta atletica né particolare genialità nel gestire le situazioni, ma ero onesto e preciso e questo bastò per farmi avanzare di carriera, anno dopo anno, fino a questo maledetto attimo dove il tempo si è bloccato.
E’ l’ultima giornata di campionato. Minuto ottantanove di novanta più tre di recupero che ho segnalato cinque secondi fa.
Ci si gioca il titolo di campione nazionale.
A contenderselo una squadra che in centododici anni di storia non ha vinto mai nemmeno una coppa finta, rappresentante di un piccolo paese di provincia che mai avrebbe pensato di poter sognare fino a questo punto. Avversari di oggi una squadra di mezza classifica, senza ormai ambizioni o timori da almeno un mese, bloccata in una mediocrità senza sbocchi, che però si sta battendo onestamente.
In un altro campo sta giocando la seconda in classifica, squadra ricchissima che ha già vinto ventisette titoli nazionali e un sacco di altra roba, vedo dallo schermo luminoso dello stadio che sta facendo il suo compito senza problemi, vincendo ormai quattro a zero una partita senza più storia.
Nel mio campo invece si decide tutto. Basta un pareggio alla piccola squadra per fare la storia, per compiere uno dei più grandi miracoli sportivi degli ultimi decenni.
Dicono ci sia il mondo neutrale che se lo può permettere a guardare e tifare.
Spettatori, telecamere, occhi ovunque puntati su di noi, mai stato un problema, per certi versi mi pare di essere ancora in qualche campo disossato in cui un ciuffo d’erba è un’utopia.
Sono zero a zero. La squadra sta scalando l’ultima tappa con una fatica indicibile ma ce la sta facendo.
C’è qualcosa di strano in questa gara. Sta aleggiando la paura, tutti la sentono e tutti fanno finta di niente ma impregna l’aria, le azioni, i gesti e le smorfie. La squadra del piccolo paese ha paura. Ha giocato fin qui trentasette partite e manca l’ultima, ne ha vinte ventisei, ha creato un mito globale come va di moda di questi tempi, una stupenda storia che era inimmaginabile per chiunque fino a otto mesi fa. Si è battuta con orgoglio leonino contro avversari più forti, ha scalato la classifica rimanendo attaccata al sogno con i denti e le unghie. I giocatori erano perfetti sconosciuti trasformati da un allenatore saggio e pragmatico in un’armata sicura di sé.
Ora manca pochissimo per il trionfo, il mondo si arrapa per queste storie, come è giusto che sia. Mancano esattamente trentaquattro secondi più i tre minuti di recupero al trionfo, sembra che nessuno respiri.
Sta giocando malissimo. Passaggi sbagliati, incomprensioni fra i giocatori, lanci perduti, interventi insicuri. Stanno comunque portando il pareggio che serve al sogno in fondo, con fatica estrema, una gara bruttissima, se questi sono impauriti gli avversari sono semplicemente scarsi.
Eccoci arrivati al momento in cui ho fermato il tempo.
Gli avversari senza niente da perdere hanno messo il naso fuori dalla loro metà campo e imbastito un’azione alla meno peggio che in qualche modo sta arrivando in fondo. Il cross del terzino sinistro spiove in area di rigore e non sembra avere grosse pretese.
Strani i pericoli. Spesso quando giungono non hanno proprio l’aria di essere tali, paiono molte volte innocui, gestibili.
Ma che diavolo fa il difensore capitano?
Ma che gli sta passando per la testa, crede di giocare a pallavolo? Roccioso e indomabile è stato il simbolo della stagione, è stato un muro spesso impeccabile ma ora ha fatto un disastro. E’ saltato con la coordinazione di un vecchio ingobbito che prova a prendere da uno scaffale l’ultimo barattolo di conserva e sta toccando il pallone con la mano, se ne accorgerebbe anche un cieco, è oggettivo e come se non bastasse ci sono telecamere ovunque.
Io ho fermato il tempo, posso muovere gli occhi e basta, vedo le facce in una smorfia di tensione che attanaglia tutti, vedo il pubblico, decine di migliaia di persone che guardano da una sola parte, che fissano un oggetto sferico come il pianeta, che si contorcono in una paura che sta diventando un dramma. Vedo il tabellone che segna il risultato bloccato. Vedo la mano che sta toccando il pallone inequivocabilmente, vedo gli sguardi impauriti dei compagni, vedo l’aria stupita dell’attaccante avversario che non sarebbe mai arrivato su quel pallone.
Perché? Cosa dovrei fare secondo voi? Far finta di niente?
Mi sono sempre vantato dell’onestà come fosse l’unica cosa che portassi in tasca e avessi da offrire. Il mondo spesso perverso e crudele ama le belle storie, i buoni sentimenti, le imprese inaspettate, come se lo riscattassero in qualche modo. Io anche, quando posso permettermelo.
Ma che mondo sarebbe se i buoni sentimenti venissero favoriti solo perché tali, che venissero fatti vincere senza merito e senza giustizia solo perché raccontano una bella storia? Sarebbe un mondo falso, di cartone, questa diventerebbe una vittoria appannata, un trionfo sporcato, una storia che improvvisamente nessuno ha più ansia di raccontare, un “sì ma però..” che accompagnerebbe un’impresa ormai falsata, un mito che ha barato.
Sembrava la cosa più semplice del mondo. Avversari senza ambizioni, tifosi ovunque, aria di vittoria a imperversare. Ma questi giocatori sono scesi in campo impauriti, se ne sono resi conto tutti dopo nemmeno cinque minuti e anche loro. Improvvisamente non si capivano più, i lampi di orgoglio e rabbia che gli avevano accompagnati fin qui si sono sciolti come ghiaccio al sole e sono diventati chiazze di timore che è andato a crescere nei minuti fino all’orgasmo della follia del capitano.
Gli uomini sono affascinanti perché spesso diventano irrazionali, tremendamente umani, nel momento più inaspettato, magari dopo essere apparsi per tanto tempo nel modo completamente opposto.
Sono strani, spesso è capitato anche a me nelle piccole cose della vita, con le donne, le occasioni o i lavori. Dopo un cammino preciso è come se tu rifiutassi il giusto trionfo.
Come aver fatto cinquanta chilometri a piedi per prendersi un panino e non riuscire ad allungare il braccio quando ce l’hai davanti.
Come se spesso le persone temessero la felicità, come se un’oscura parte di loro remasse contro, svegliandosi nei momenti decisivi, come se improvvisamente anelassero a una splendida disfatta, come se i limiti della mente, spesso assurdi, che ognuno a suo modo ha, bloccassero la diga della vita e facessero andare l’acqua controcorrente.
Non esiste nessun trionfo dovuto, anche se meritato. Esiste solo il trionfo che ti prendi. Il mondo è pieno di imprese sfiorate, di “quasi”; se li porta via il vento, dopo poco. Rimane l’amarezza, rimane un ricordo che brucia che non hai voglia di raccontare, rimane l’odio verso te stesso, vorresti uccidere quella parte malata, ma che ti piaccia o no fa parte di te.
Ci sono cose che, se anche il mondo intero ti amasse in contemporanea, gli altri non possono fare, toccano a te e nessun altro.
Mi viene in mente una delle rare eccezioni. Olimpiadi di Londra, 1908, maratona. Dorando Pietri era primo, aveva corso quasi quarantadue chilometri, ma gli ultimi cinquecento metri diventarono cinquecento chilometri. Sbagliò strada, cadde stremato, lo spazio dilatato. Ruppero il protocollo aiutandolo, anche solo per pietà; si dimenticarono che non si può, appunto. A lui almeno non andò male, diventò comunque famoso, perse la medaglia in cambio di una coppa d’argento dorato donata dalla principessa Alessandra di Galles, arrivarono a fare una colletta raccogliendo trecento sterline, si prese le sue rivincite successivamente, ma è un caso rarissimo, lontano.

Dorando_Pietri_1908
Questa sarà un’altra storia. Il mondo va sempre più veloce e sempre più velocemente dimentica, la sete di miti si è trasformata in fame di eventi da accatastare a caso.
Ora il tempo deve ripartire.
Il pallone tocca il braccio, cade morto sul terreno, il portiere urla, il silenzio dello stadio ammutolito diventa assoluto fino a diventare il suo contrario – niente fa più rumore di quarantamila persone zitte – riempio i polmoni e fischio, vorrei piangere, vorrei scappare, devo farlo.
E’ calcio di rigore. Speriamo lo sbaglino, è l’unica cosa che mi è rimasta da fare.

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