“Character assassination”. Omicidio di un personaggio. Con queste parole polemiche, il portavoce di Wikileaks Kristinn Hrafnsson ha commentato la proiezione sull’organizzazione che ha scosso le diplomazie di tutto il mondo, mettendone a nudo il retroscena, le parti intime. Sabato 30 al cinema Odeon il docufilm di Alex Gibney ha inaugurato, in una sala piena fino all’ultimo posto, il 54esimo Festival dei Popoli di Firenze.
We steal secrets è documentario controverso, come la realtà che racconta e quel personaggio, Julian Assange, rivelato al pubblico da una prospettiva più confidenziale. Non poteva che lasciare polemiche la pellicola che, in 130 minuti, ripercorre la rapida ascesa e la parabola discendente di uno dei casi mediatici più discussi della storia del pianeta.
Le storie in realtà sono due, molto diverse, ma unite da un’azione forse ineluttabile per il loro destino. A quella del canuto hacker australiano si sovrappone la vicenda di Bradley Manning, un soldato semplice poco più che ventenne che combatte i suoi fantasmi interiori con una guerra idealista contro le atrocità commesse dal proprio paese in Iraq.
Il documentario è un viaggio che racconta la vicenda di un uomo armato di computer capace di far tremare tutte le ambasciate del mondo e un altro uomo, o forse nel profondo donna, che vive un’inquietudine forte, inconfessabile, più forte di lui, quella dell’identità sessuale che riuscirà ad annegare nell’idealismo.
Non è la storia ufficiale di Wikileaks commissionata dai suoi protagonisti. Ed era persino troppo chiaro. Se l’organizzazione denuncia inesattezze e un vero e proprio attacco ad Assange, in verità i fatti di questa vicenda incredibile scorrono sullo schermo attraverso i diversi punti di vista dei personaggi che hanno avuto un ruolo importante in questa storia.
Le prospettive si intrecciano nei racconti dei giornalisti, dei membri della Cia, del NSA, dei collaboratori stretti di Assange. Molti, come sottolinea il portavoce di Wikileaks, sono in aperto contrasto con l’organizzazione. Altri forse appartengono ai quei media che hanno pubblicato le rivelazione scottanti e poi si sono lavati le mani come Ponzio Pilato senza pagarne le conseguenze. Una cosa però è certa. In questa miscela di punti di vista il personaggio di Julian Assange, considerato eroe digitale dai suoi fans, diventa una rockstar decadente e piena di sé, che finisce per distruggere con il suo ego il giocattolo sapientemente fabbricato.
Braccato dai grandi del pianeta e da un processo a dir poco equivoco per violenza sessuale in Svezia, Assange sembra però ripiegare nella sua solitudine di idealista digitale, un po’ megalomane e molto solo. Oggi è barricato nell’ambasciata ecuadoriana a Londra. Manning al contrario è l’eroe oppresso che espia le colpe della verità e del suo difficile conflitto interiore, pagando a caro prezzo, prima con la tortura, poi con una pesante condanna, il tradimento nei confronti del suo paese e a favore del nemico. Quel “nemico” che non sarà mai specificato.
C’è poi una terza storia, quella di tutta l’umanità che compie azioni quotidiane mentre altri esseri umani tessono la tela dei fili che manovrano il pianeta. Dietro quei segreti cifrati, quei documenti inaccessibili si nasconde però la verità, quella che prima o poi riesce a uscire fuori in modo ineluttabile. “Tre cose non possono essere nascoste a lungo: il sole, la luna e la verità”, diceva il Siddharta di Hesse. Adesso lo sappiamo, il Vaso di Pandora è stato aperto.