Ci sono alcuni film che scorrono placidi come se quella pellicola non rappresentasse altro che un paio d’ore passate in compagnia di quegli attori. Ci sono altri film, i grandi film, che non valgono solo un paio d’ore, anzi è come se durassero anni. E, infine, ci sono quei film che, una volta terminati, ti lasciano lì. Abbarbicato sulla poltrona del cinema o sul divano di casa. Ti accelerano il battito, ti estraniano dal mondo. Come se stessi continuando quei minuti dentro la tua testa.

Questo è uno di quei film. “La mafia uccide solo d’estate”. Una storia che con tocco ironico racconta fatti realmente accaduti; i quali, di certo, non hanno lasciato in quegli anni l’amaro sorriso che si crea nel volto degli spettatori quando assistono alla “Strage di Viale Lazio” proprio nel momento del concepimento di Arturo (Pif, Pierfrancesco Diliberto – regista e protagonista).

Infatti questa strage fa parte di uno dei tanti episodi che hanno creato quella scia di sangue la quale, come il fiumiciattolo di “Cent’anni di Solitudine”, conduce, non da Josè Arcadio ma, ad un solo nome: Mafia.Quella mafia che tanto si interseca con la vita di Pif.

Arturo, per colpa sua, perde Flora (Cristiana Capotondi) di cui era innamorato. Suo padre, per paura delle indagini che i giudici stanno conducendo su alcuni conti bancari, scappa in Svizzera con la famiglia. La ritroverà dopo anni, nei panni della segretaria del DC andreottiano Salvo Lima, ucciso anche lui “sotto colpi d’arma da fuoco”, mentre egli stesso lavora come pianista nello “Show dei Palermitani” di Jean Pierre. Da qui verrà assunto, dall’ex amica e compagna di scuola, per documentare i punti nevralgici della campagna elettorale di Lima in Sicilia. Arturo accetta per poter stare con il suo “grande amore” a cui, da bambino, regalava le iris alla ricotta, nello stesso bar in cui nel 1979 veniva ucciso il capo della squadra mobile Boris Giuliano.

Nella Palermo raccontata da Pif non si avvicendano solo mafiosi e politici “amici degli amici”. Si presentano anche i grandi eroi che hanno fatto la storia dell’Isola e dell’Italia intera. Uno tra questi è il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa che rilascia persino un’intervista al piccolo Arturo, che proprio con il Generale, per la prima volta, esprime le sue doti di cronista. Il ragazzino palermitano sogna infatti di diventare un giornalista e in questa aspirazione è guidato da Claudio Gioè, nei panni di un giornalista ormai disilluso e affittuario della casa del nonno di Arturo. Sarà lui il suo maestro e mentore.

Il film si distingue per le battute e per la sottigliezza dell’ironia con cui documenta il fenomeno mafioso; ma, terminata la finzione, si è catapultati nuovamente in quel mondo di menzogne, omertà e paura che ha coinvolto e coinvolge, ancora oggi, la Sicilia e non solo. Ci si rende conto che la mafia è stata sottovalutata e, nel 2014, di certo non viene combattuta appieno. Il fenomeno ormai, anche se non appare più con il tritolo e le polveri da sparo, continua con le intimidazioni. Con le urla contro il magistrato Roberto Di Matteo e gli altri giudici di Palermo.

Il senso civico è senz’altro migliorato, ma la strada è ancora lunga. Ci resta un amaro sorriso regalato da 90’ di film, definito da Piero Grasso come “la miglior opera cinematografica, sul tema mafia, che abbia mai visto”.

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