Per qualche motivo che mi sfugge, è sempre una delle prime cose che mi vengono in mente quando si parla del Maestro: una scena di un suo film, accompagnata da una colonna sonora insolita e a suo modo perfetta. È strano perché il film non lo metterei di certo tra i miei preferiti, e la scena in questione non è che abbia qualche significato particolare (oppure sì?); è strano anche perché ha poco a che fare con quello che solitamente consideriamo il Fellini “classico”. Forse è proprio questo il punto.

Il 3 maggio 1979, quando cominciano le riprese de La Città Delle Donne, il regista riminese ha cinquantanove anni e gliene restano ancora quattordici da vivere; Marcello Mastroianni indossa ancora una volta i panni dell’alter ago del regista (anche il nome del suo personaggio, Snaporaz, è una citazione di ); Nino Rota è morto da tre settimane, mettendo fine a un sodalizio durato quasi trent’anni (uno dei più celebri e indispensabili della storia del cinema: Fellini senza Rota sarebbe un po’ come Sergio Leone senza Morricone). Le musiche originali sono affidate a Luis Bacalov, i manifesti per le affissioni li firma Andrea Pazienza.fellini002

La Città Delle Donne è il film in cui Fellini racconta l’universo femminile visto con gli occhi di Federico Fellini: uno sguardo sognante e al tempo stesso cinico, una dichiarazione di resa senza onore del maschio contemporaneo, una satira piuttosto spietata nei confronti del movimento femminista e tante altre cose, perché il regista non racconta mai una sola storia per volta, non sa accontentarsi. Il suo stile onirico qui è portato all’eccesso, con risultati altalenanti: scene concitate e poi lunghi tempi morti, eccessi “felliniani” dappertutto, personaggi improbabili e ancor più improbabili dialoghi al servizio di una trama che in realtà trama non si può definire, è un tessuto cucito insieme senza criterio, dai colori bellissimi e sgargianti, quasi impossibile da indossare. Un Fellini minore e allo stesso tempo un Fellini al cubo.

Dopo un maldestro approccio a una sconosciuta e un raduno femminista dai toni surreali c’è la famosa scena: è pomeriggio e Snaporaz segue una giovane ed eccentrica donna su una strada di campagna, convinto che lei gli stia mostrando la strada per la stazione (spiegare perché, oltre che complicato, sarebbe superfluo). La giovane invece lo affida a una banda di sei ragazze che si aggirano da quelle parti a bordo di due dune buggy; Snaporaz sale a bordo e in poco tempo scende la notte. È qui che comincia The Visitors.

(curiosamente, una delle ragazze sulla dune buggy di Snaporaz a un certo punto chiede: “Quanto dura Red One?”, e sembra riferirsi proprio alla canzone).

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Sino a pochi minuti prima sullo schermo c’era un bel sole di mezza stagione, con la luce tiepida e mediterranea come quella che splende nei ricordi d’infanzia, a dipingere una scena bucolica virata un po’ sul comico e un po’ sul grottesco; adesso c’è una trama infernale di sintetizzatori e una voce maschile che sembra arrivare da un altro pianeta, mentre il buio si popola di luci assurde e aliene e il povero Snaporaz comincia ad avere paura. Ne avrà molta di più dopo che sarà sceso dalla dune buggy, a seguito di un piccolo diverbio con le ragazze, e sarà costretto a rifugiarsi nella decadente villa del Dr. Katzone (!). Ma questa è un’altra storia: un po’ come quando un incubo si insinua in un lungo flusso di sogni più o meno normali, ci fa morire di spavento e poi svanisce senza lasciare altra traccia di sé che un ricordo confuso, le note pulsanti di una canzone.

Il brano, The Visitors appunto, è opera del polistrumentista e produttore canadese (di chiare origini italiane) Gino Soccio, che lo pubblica nel ‘78 come singolo e l’anno successivo all’interno del suo primo LP Outline. Seguiranno altri tre album e una bella manciata di singoli piazzati in classifica, per una piccola carriera di culto nella dance music anni Ottanta. Già alla prima visione mi ero posto la domanda: che ci fa una roba del genere in un film di Fellini? È stata un’idea di Bacalov o di qualche altro collaboratore? Oppure l’ha scelta lui personalmente?

(il brano, tra l’altro, non venne inserito nella colonna sonora del film)

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Riguardando la scena a qualche anno di distanza dall’ultima volta, intuisco il motivo per cui mi è rimasta così impressa e credo di aver pensato la stessa cosa a suo tempo, o forse me lo immagino soltanto: è una scena che colpisce perché, se hai l’età giusta per essere cresciuto con il mito del videoclip, è facile convincersi che stai guardando il primo e unico videoclip di Fellini. Oppure, ripensandoci, quella scena è Fellini come sarebbe “normalmente” stato se fosse nato quarant’anni più tardi: cupo, gotico ed elettronico. Anzi no, la scena rappresenta il modo in cui Fellini vedeva le adolescenti di allora, che oggi hanno cinquanta e più anni e chissà che musica ascoltano, ma a quel tempo per lui erano delle pazze o delle extraterrestri e forse gli facevano paura, da adulti capita di avere paura dei giovani e non sapere perché. O forse è tutt’altro, e sono andato completamente fuori strada. Seguono altri pensieri senza forma, domande e suggestioni, poi la musica svanisce e ritorna la luce; Snaporaz bussa alla porta di un vecchio dongiovanni che proprio quella notte celebra se stesso e le sue innumerevoli conquiste, è già tempo di passare a un altro sogno.

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