Come non rimanere un pochino interdetti a fine lettura, di fronte a quest’ultima fatica di Vito Moretti (Luoghi, Chieti, Tabula Fati, 2011): ci si aspetterebbe un’altra partenza, un altro, fosse anche pur breve, soggiorno, l’ennesima descrizione in bilico tra crepuscolarismo e reminescenze proustiane; e, invece, nulla di tutto questo. Nulla di tutto ciò, a malincuore si sarebbe tentati di scrivere. Virgilianamente accompagnati in questo percorso itinerante, si perde, passo dopo passo, o meglio luogo dopo luogo, la paura di andare avanti da soli: sin dai primi versi in direzione Lubiana, ci si sente condotti con mano, con cautela, tranquillità, pacatezza, e non ci sono, dantescamente parlando, bestie feroci a sbarrarci la via.
Il viaggio si fa percorso esistenziale, e dunque religioso, ma non ci sono traumi da riparare. Ѐ un ritorno alla natura, attraverso un tragitto, a metà tra il leopardiano e il pascoliano, liberi, tuttavia, da quel sapore di cose perdute e difficilmente ritrovabili che ci lascia la lettura dei due grandi Poeti.
Dunque, Moretti s’inserisce, di diritto, tra i viaggiatori del nostro tempo.
Un elenco sarebbe cosa dura e ardua, e ci si dimenticherebbe sicuramente qualche viaggiatore che abbia lasciato il segno. Eppure l’Io-viaggiante del Poeta riporta alla mente celebri esempi della Letteratura-Vita (se non si ha voglia di negare che i personaggi, per gli addetti ai lavori e per gli irriducibili lettori, siano fatti in carne ed ossa, con i loro vizi e le loro virtù) vasta ed articolata: dunque l’Io-Poeta-Viaggiatore-Moretti ricalca, con le dovute differenze di contesto storico-sociale e non solo, la scena di Ulisse, il quale tanto dovette faticare, pardon, “viaggiare” e “sostare in disparati luoghi” per ritornare dalla sua Penelope; e lo stesso è per un altro modello di viaggiatore, Abramo, il cui esodo (da exodos, cioè uscir fuori) è dettato dall’ansia di un viaggio, la cui fine non è data prevedere, in quanto la patria è promessa ma non conosciuta.
Tuttavia, in Moretti non c’è nessuna catastrofe imminente: né quando attraversa le acque paludose di Oriago (sulle rive del Brenta), memori dell’omicidio di Jacopo del Cassero in Purg. V,79-84; né, tantomeno, nel soggiorno della fredda Mosca comunista o ad Odessa, dove preferisce omaggiare Anna Achmatova e Isaac Babel più che concentrarsi in maniera insistita sulle sanguinose rivolte popolari contro lo zar.
Il Poeta-Moretti, nel viaggio che compie, parte senza rompere nessun cerchio di protezione domestico, è un cammino di ricerca spirituale, di pacificazione interiore, come mosaicista che ricompone gli ultimi pezzi. Il cammino, dunque, non è impresa ma esplorazione, perlustrazione, con la consapevolezza che ci sarà un ritorno alla propria dimora. E non è un caso se la seconda (Dimore) delle tre sezioni della raccolta è quella che tocca più da vicino l’autore: da San Vito Chietino a Chieti, da Ortona a Lanciano, per arrivare a Villa Badessa, c’è tutta la vivezza e l’atmosfera calda del focolare domestico.
Non potrebbe essere altrimenti, in fondo l’autore è riuscito a farci sentire a casa in posti lontani (Bratislava e Nella riserva indiana dei Catawba) ma è proprio in queste liriche più intime che Moretti fornisce al lettore il suo piano dell’opera: l’idea di complementarietà tra lo spazio esterno, (quello dell’incessante ricerca di sapori e odori lontani) e lo spazio domestico (il privato più privato), l’altra polarità dell’esploratore dei Luoghi, prima sezione del libro.
Un percorso esistenziale, alla ricerca di un «altrove», una ricerca che il viandante-Poeta ha la capacità di rendere stabile, di rendere «viaggio programmato a tavolino», «tutti i luoghi sono casa» sembra ripromettersi il viaggiatore in ogni luogo, ma, inevitabilmente, è attaccato dalla malinconia, da un senso di estraniamento che ci riporta al Quasimodo di Lettera alla madre. A tal proposito, valgano come esempio alcuni versi de i volti di Dublino:

 

[…] Ѐ vana e anonima la consegna

della città all’ospite venuto con i suoi fogli

da leggere e con libri stipati nel cavo

delle sue ordinate diligenze. […]

 

A questo punto, è lecito domandarsi, purché la risposta rimanga circoscritta a motivazioni strettamente connesse al campo letterario, se Moretti, presentando nella terza sezione (Altri luoghi) della raccolta poetica, una serie di canti di argomento religioso, non abbia percorso anche lui, come Dante, in modi e tempi diversi, un ideale cammino che ci porta fino all’Altro. Altro da intendersi, con improbabile gioco di parole, come Alto; quindi, è da chiedersi se quest’ultima sezione non renda ancor più personale questo viaggio dai contorni accesamente danteschi.
Probabilmente, la difficoltà nel fornire risposta concreta al quesito è data dal fatto che ci si trova di fronte ad un campo di ambiguità sostanzialmente irrisolto: il binomio laicità-religiosità. In nessun libero pensatore, prima o dopo Cristo, si può scorgere una totale e assoluta assenza del tema religioso: da Dante a Nietzsche, da Flaubert a Dostoevskij, tanto per citarne alcuni.
Moretti non è esente, ma piuttosto che associarsi al grido di dolore giobbiano o al lamento di dolore del Cristo morente in croce (Mt 27,45-49), fornisce un’ulteriore prova della sua Vocazione, proseguendo il suo personalissimo viaggio prima sostando a lungo presso Gerusalemme, per dirigersi poi a Betania, a Gerico, presso il fiume Giordano, per arrivare a conclusione del suo lungo percorso terreno ed ultraterreno ai piedi di Maria, come da lunga tradizione letteraria (da Dante a Petrarca e oltre). Ed è qui che, il non scritto di Moretti, mette in luce la giustificazione del viaggio e delle soste, dei luoghi e delle dimore e di quegli altri luoghi per ritornare alla Madre, al Grembo della Madre, al vero e unico e solo «luogo di origine»: il Poeta lo fa, se ne fa carico per tutti, per tutte le genti che ha visto e conosciuto, per quelle che non è riuscito a imprimere negli occhi da pellegrino, e per lui e per tutti loro (Nonna Rosa, i moscoviti, i francesi di Montmartre, per quelli che non ha incontrato, etc.) che è lì a impetrare pietà per l’umano destino a Lei, terrena e divina, umile e santa, «figlia del suo figlio» (Par. 33,1).

Un viaggio interiore e paesaggistico (l’autore s’improvvisa, al tempo stesso, confessore e paesologo), dunque un viaggio dentro e fuori, per fermarsi un attimo o poco più in Luoghi, frangenti di stanzialità che rincuorano un destino umano sempre precario se non si riesce a ritrovare le proprie Dimore, per rammemorare la giovinezza con i calzoni corti, il primo e unico vero amore, la bici paterna che vale più di una semplice bici.
Ma l’itinerario è incompleto, nuovi e più importanti Altri luoghi, l’autore sembra disegnare con mano sicura: il poeta-Moretti riesce a divenire sostanza più che terrena in liriche importanti e imponenti; non nasconde una sorta di autobiografismo che diviene con forza e originalità, scrittura istituzionalizzata, cioè voce di tutti e memoria del mondo, di questo e dell’Altro.
L’autore, pertanto, inconsapevolmente (forse!), si scorge novello Adamo, in quel suo compito primordiale di nomare i suoi Luoghi, per sentirli vicini, per sentirli parte di sé, per non sentirsi, come lui scrive, straniero:

 

[…] ma straniero
è chi non ha ricordi del vero
e che non sa conservarne nomi
e fatti […]

 

(V. Moretti, nella casa di Maria, 28-31)

 

Vito Moretti, originario di San Vito Chietino, è docente universitario, scrittore e poeta in lingua e dialetto. Tra i suoi ultimi lavori poetici: Da parola a parola (Bari, Laterza, 1994), ’Nanze a la sorte (Venezia, Marsilio, 1999), Di ogni cosa detta (Pescara, Tracce, 2007), L’altrove dei sensi (Lanciano, Carabba, 2007), Con le mani di ieri (ivi, 2009). Per la narrativa pubblica Nel cerchio della tartaruga. Prose, incontri e qualche storia (Chieti, Métis, 1996). Numerosi sono i suoi contributi nel campo della saggistica, e di particolare rilievo sono i lavori su carteggi e scritti inediti di Gabriele D’Annunzio.

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