Dare un nome al proprio futuro. Anche quest’anno Matteo Renzi ha scelto la vecchia stazione per la sua kermesse mediatico-partecipativa, una definizione un po’ arzigogolata ma l’unica che viene in mente. “Dare un nome al proprio futuro” è il messaggio che campeggia in tanti colori all’ingresso di #Leopolda13, in ogni angolo delle sale principali, sui cartellini dei partecipanti e sulle magliettine dei giovanissimi volontari. Cento tavoli, cento argomenti caldi del presente e del futuro (nel gergo politologico diremmo issues). Dall’immigrazione all’economia, dal sovraffollamento delle carceri al Mezzogiorno. Dall’Europa alla giustizia. Ciascuno è moderato da una personalità politica “amica”, tra sottosegretari, parlamentari o amministratori locali e da un esperto, un “disturbatore” che indirizzi il dibattito su aspetti più tecnici o real politik. Questa quarta edizione è particolare perché il sindaco di Firenze fiuta l’arrivo del suo momento in vista delle primarie dell’8 dicembre. Utilizza un Macbook Air e parla con microfono anni ’50 che ricorda il rock n roll di Elvis, risponde in diretta Twitter (#Leopolda13) e Facebook nel dibattito virtuale.

Le stanze della Leopolda sono stipate di persone, tra il caldo, le luci, i tavolini, il buffet e gli stand, il parco giochi. La Cinquecento bianca che campeggia all’entrata, la vespa che fa capolino dal palco e persino i gelatai evocano immagini felliniane di quell’Italia spensierata del boom economico. Alla prima giornata si contano già duemila iscritti e ogni tavolo di discussione è occupato fino all’ultimo posto. Sarà che si stratta di un caldo venerdì sera di fine ottobre ma a dire il vero, tranne qualche eccezione, i giovanissimi latitano. I simboli però sono quelli di uno show preparato con estrema cura, senza lasciare niente al dettaglio, dove ogni particolare è stato studiato seguendo i mantra del marketing politico elettorale. Sembra un po’ come quel film No-I Giorni dell’Arcobaleno, dove Gabriel Garcia Bernal interpreta il giovane pubblicitario che cambiò il destino del referendum proposto da un Augusto Pinochet al capolinea, aprendo di fatto la via della democrazia per il Cile dopo 25 anni. Una campagna vincente non poteva riprodurre i dolori e la ferocia della dittatura, ma trasmettere allegria, fiducia e colore. L’Italia però non viene da una sanguinaria dittatura, ma da una situazione (tuttora incalzante) di degrado economico e sociale. Ha bisogno di contenuti.

Il sindaco, peraltro criticato dai suoi detrattori di assenteismo per troppi “impegni nazionali”, e dal suo rivale Cuperlo (“Renzi vuole fare troppe cose”), è il padrone di casa, padre putativo e anfitrione. Interviene in diretta dalla Gruber a Otto e Mezzo e parla a tutto campo con un linguaggio televisivo della “politica pop” dei colpi ad effetto. “Sono più grillino io, di Grillo”, “Doppio incarico? Non voglio stare solo nei pastoni del Tg”, “Basta inciuci e larghe intese”, ”il Pdl ormai sta diventando una soap opera, un incrocio tra Beautiful e Sentieri, si lasciano, si rimettono insieme”, sino alla stoccata al governo: “Invece del cacciavite Letta usasse il Caterpillar”.

I dubbi. Ci si chiede se questa immaginazione, questi colori e queste associazioni siano la chiave di volta per il cambiamento del paese. Appassionare con gli strumenti del nuovo marketing politico-elettorale è sufficiente per ripartire? La comunicazione è importante ed è stata il vulnus del centro-sinistra degli ultimi 20 anni, ma la Penisola è a caccia disperata di contenuti, quelli che perde quando un giovane cervello parte da casa e pianta un seme nel giardino del vicino. Semi forti che riempiano un vuoto culturale che sta alla radice del declino italico. Renzi è il favorito alla corsa per la leadership del PD e l’esperimento dei tavoli suona come una risposta a chi lo ha criticato di lasciare per strada i contenuti nel tentativo di apparire, di costruire un’immagine attraente e “borderline” capace di attirare un pubblico che va da Briatore agli spettatori di Maria De Filippi, sino ovviamente ai delusi del Pdl o ai grillini di ritorno. I risultati di recentissimo sondaggio condotto da Demos per Repubblica lo indicano in testa nel gradimento individuale come futuro premier al 32,8% davanti a Letta e Berlusconi. Il tentativo di dare al centro sinistra una nuova immagine che ricorda il New Labour di Blair del 1997 (dietro le ricette di Alastair Campbell) ha permesso di conquistare larghe fette di elettorato a destra, ma sembra aver destato delle perplessità a sinistra. L’Italia poi non è la “#Leopolda13” che pure nei suoi tavoli di discussione ha affrontato tutti i suoi problemi. L’Italia è il paese dell’emergenza lavoro del Sulcis, della Fiat, del caso Ilva, delle periferie senza istituzioni di Scampia e dello Zen palermitano, del Mezzogiorno che va indietro a passo di “gambero” in un paese a due velocità, delle mafie che fatturano il 10% del Pil, dei giovani che non trovano lavoro e che addirittura non lo cercano più, della difficile integrazione dello straniero, dell’emergenza carceri, dell’abbandono del patrimonio culturale e del declino delle università. Se Renzi dovesse essere investito delle responsabilità che chiede, dovrà farsi trovare pronto a governare queste tante, multiformi “Italie”, facce della stessa medaglia.

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