In tutta Europa i partiti anti-euro guadagnano fette sempre più consistenti dell’elettorato. Che si tratti di estremismi di destra come il Front National francese o l’Alba Dorata greca, oppure di movimenti “trasversali” come il nostro Movimento 5 Stelle, le tematiche di fondo sono spesso molto simili: dal riconferire potere ed autonomia ai singoli Stati tornando alle precedenti valùte, sino alla chiusura delle frontiere estesa anche ai cittadini dei nuovi Stati membri. Il successo di queste correnti politiche è sicuramente incentivato dal potenziale che hanno nel catalizzare il malcontento generale dovuto ad una crisi economica che non accenna a migliorare, non è però da sottovalutare la portata potenzialmente catastrofica che potrebbe avere per il progetto della moneta unica europea, e di conseguenza, per l’Unione Europea stessa.

Facciamo un breve passo indietro, per mettere a fuoco il tema che stiamo trattando:

Nel 1951, in un’Europa in ginocchio dalla seconda guerra mondiale, sei Paesi (Germania, Belgio, Francia, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi) firmano a Parigi il Trattato istitutivo della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA) con l’obiettivo di gestire in comune le proprie industrie carbosiderurgiche, in modo tale che nessuno Stato avrebbe più avuto la possibilità di costruire armamenti da rivolgere contro gli altri. La Francia spinge molto affinché la Germania sia tra i firmatari, così da poter tenere sotto controllo la potenza più grande della regione, principale responsabile delle due guerre mondiali appena concluse. Dopo questa data assistiamo ad un progressivo allargamento sia nel numero degli Stati aderenti, sia nelle funzioni che vengono attribuite a questa nuova creatura sovranazionale.

Arriviamo al primo gennaio del 1993, quando viene firmato il Trattato di Maastricht, che definisce precise norme in relazione alla creazione di una moneta unica, che prende ufficialmente il nome “euro” nel 1999, ed entra nelle tasche di tutti i cittadini degli Stati aderenti a partire dal 2002.

Ma, in questo bellissimo progetto di creazione di un’identità comune, di un’orchestra composta ormai da ventisei Stati che suonano insieme una stessa sinfonia, come mai ci sono tante note che stonano? Quand’è che qualcosa è andato storto nella composizione del pentagramma?

L’idea alla base dell’Unione Monetaria Europea è stata fin da subito quella che ogni Stato dovesse comportarsi, nella gestione della propria economia domestica, come una “casalinga tedesca”: una donna estremamente attenta al proprio budget familiare, che sa qual è la sua possibilità di spesa mensile e che è in grado di bilanciare le entrate e le uscite in modo tale da poter mettere da parte ogni mese una piccola quantità di risorse da investire in futuro. L’errore sostanziale è stato credere che questo modello potesse essere facilmente applicabile a qualsiasi altro Stato.

Sono state definite regole e parametri di ordine economico che ogni Stato era tenuto a rispettare per poter far parte del progetto:

prezzi stabili (in altre parole, inflazione bassa); debito pubblico non più grande del 60% del PIL; deficit di bilancio non più alto del 3% annuo (pena, multe del valore del 0.5% del PIL); tassi di interesse di lungo periodo dei titoli di stato in linea con quelli della Germania. In aggiunta a questo, si era trovato un compromesso politico fondato sul fatto che, qualora uno Stato non fosse in grado di dossisfare queste condizioni (e questo valeva soprattutto per Italia, Belgio, Spagna e Grecia) ma facesse dei seri sforzi per raggiungerle, gli era comunque concesso di entrare nell’Euro-zona.

La teoria economica suggerisce che una unione monetaria (per intenderci, come quella fatta dagli USA a loro tempo con il dollaro) sia fondata sui seguenti presupposti:

Unica banca centrale con possibilità di emettere Titoli (i famosi BOND europei); politica monetaria centralizzata e coordinazione nelle politiche economiche; armonia nei sistemi fiscali e nei tassi di inflazione; tassi di interesse equilibrati dei Titoli di Stato e performances simili nei mercati di capitali.

Non notate anche voi delle sostanziali differenze tra la prima e la seconda lista che avete letto?

Il patto di stabilità del 1999 letto poc’anzi, che impone di non sforare il 3% annuo nel deficit di bilancio, ha rappresentato per molti uno scoglio difficile, e ha portato a politiche economiche di austerità soprattutto nei paesi del Sud, la cosa curiosà però è un’altra: Mentre molti si sacrificavano, due stati, Francia e Germania, continuavano per anni a sforare questo limite…ma, avranno pagato le sanzioni? I’ECOFIN, il Consiglio dei Ministri delle Finanze europei, nel 2003, ha deciso che i due stati non erano tenuti a pagare. Francia e Germania hanno evitato le regole senza pagarne alcuna conseguenza, dando vita così ad una « Europa a due velocità », nella quale una serie di regole vengono applicate ai grandi stati, ed un’altra a quelli più piccoli.

Sin dall’inizio del Progetto Europa la Francia ha tenuto sott’occhio la Germania, secondo la massima “tieniti stretti gli amici, e ancor più stretti i tuoi nemici”. Le due Nazioni più popolose del continente (e di conseguenza quelle con più potere negli organi di governo europeo), che da sole non avrebbero potuto avere un’egemonia, hanno sempre camminato a braccetto sin dagli anni della CECA, creando insieme una egemonia economico-dipolomatica in grado fare la voce grossa anche in un sistema democratico ed egualitario come dovrebbe essere quello europeo. L’economia del duo franco-tedesco, come abbiamo letto ora, ha avuto modo di fiorire anche grazie all’Europa stessa

Fintanto che le cose andavano bene, anche se tutti consapevoli delle pecche sistemiche e dei due pesi e due misure, nessuno si è lamentato. L’idea di una crescita insieme è allettante per tutti, anche rendendosi conti di essere più uno Stato « trainato » che un « trainante ». Purtroppo però la previsione ottimista che i nostri padri avevano tracciato è venuta meno, ed ora, anche se non unicamente per colpa nostra, ci troviamo in una situazione economico-finanziaria catastrofica, che minaccia seriamente il futuro dell’Euro. Il panorama attuale vede un Sud Europa in depressione, in continua agitazione sociale e sempre più critico dei confronti del rigore imposto dalla Cancelliera tedesca; un Est Europa, composto dai dieci stati entrati negli ultimi anni, che sono arrivati alla festa alle cinque del mattino, quando ormai le ragazze erano andate a letto e da bere erano rimasti solo i fondi dei bicchieri.

Il problema principale è però, che anche il duopolio franco-tedesco sta crollando, perché anche la Francia è sommersa da problemi di natura economica e sociale, e quando tra due anni la popolazione d’Oltralpe si troverà a votare il Referendum per decidere se rimanere o no in Europa la risposta non sarà più così ovvia. L’Irlanda è già uscita, e la stessa domanda verrà posta tra un anno agli inglesi, e le prospettive anche qui non sono delle migliori.

La strada del rigore non sta portando ai risultati sperati e, se la potenza trainante non decide di intervenire immettendo capitale per poter salvare gli Stati che affondano, l’Europa rischia seriamente di fare la fine del Titanic. Potremmo dire addio a cinquant’anni di storia, di progetti e di valori condivisi.

NESSUN COMMENTO

LASCIA UN COMMENTO