Era alta quaranta centimetri, aveva un libro in mano, stava in cucina a Torino, sul mobile azzurro anni ’50.

Mezzogiorno, fudda, fuoco. Sguardo sul sagrato: una comunità in attesa.

Finalmente tra i suoi devoti; “Viva San Calo’!”

La realtà si mischia al racconto, la narrazione all’azione, il gioco alla devozione.

Ci siamo anche noi, che, poco o tanto, non sappiamo nulla di cosa voglia dire questo rituale per la vecchina che promette penitenza all’alba, per il ragazzetto che fischia con gli amici mangiando croccante di mandorle e per la famiglia di mezza età, che si presenta all’appuntamento con passeggino, palloncini e tutta la serietà di un credo ancora non estinto, e tutta la spensieratezza dell'”in fondo è solo una tradizione di qui”. Ma siamo lì per intuirlo.

Voci, urla, schiamazzi. Mani giunte, istanti privati di raccoglimento.

Pesante sulle spalle, tre scalini e via! In mezzo alla folla appassionata. I portatori, tanti e di tutte le età, si fanno spazio tra le pance abbondanti; sono rossi, accaldati, eppure un po’ divertiti, per far avanzare il Santo. E subito, dopo qualche passo, la gente comincia ad arrampicarsi sul legno, sul trespolo, su di Lui.

L’uno in groppa all’altro, in qualche volgare maniera, per baciargli la fronte, asciugarne il sudore. Stupiti (ri)pensiamo che tutto il mondo di senso dell’essere umano è una assurda virtualità, invenzione stupefacente e affascinantissima follia.

Come in molte feste religiose tradizionali, i bambini hanno un ruolo speciale. Qui i nati dell’anno hanno la loro benedizione. Spartana, pericolosa. Vestiti di un saio bianco, uno alla volta e quando è possibile, vengono innalzati altissimi e appoggiati ‘n capa a San Calo’ e poi giù, tra le grinfie pericolanti dell’uno, le mani forti di un altro; tra urla di spavento passano sulle teste fino a tornare alle braccia sicure e conosciute delle madri. Arrivato: salvo e graziato.

Suona la campana “muoviti, scinni!”, c’è sempre resistenza. Il Santo barcolla, si capovolge, la gente scivola a terra e si riparte. Banda: musica maestro.

Tra anelletti e infigliolate, ci ha raccontato l’adorabile signora del panificio San Calo’ 2, che al Santo si chiede una grazia e poi ci si impegna a peregrinare scalzi da casa propria alla chiesa santuario la mattina della prima domenica di luglio. E ad Agrigento il sole che scotta sull’asfalto è affar serio; infatti c’è chi per farlo si alza alle 5.

Il figlio, quarantenne ex militare, che se ne inventa di ogni per mandare avanti la baracca (con succulento successo), anche lui crede nella tradizione ma quest’anno non può essere in processione, meglio lavorare. È giorno di festa e il panificio si trasforma in gastronomia stile catering, la gente ordina il pranzo da presentare in tavola ad amici e parenti. In un momento di tranquillità al negozio, mi anticipa che cosa accadrà l’indomani, mostra registrazioni di anni precedenti accompagnandole con l’entusiasmo di chi spiega a due insoliti turisti, davvero interessati ad entrare nel vivo senso delle cose. O almeno a tentarlo, dato che per me quel senso del sacro è solo un ricordo e Berni dice di non averlo mai provato.

Il sole è troppo caldo per procedere, noi ci accasciamo all’ombra di palma in piazza, mentre la folla si sposta. In un attimo è vuoto. Intanto nel cuore della città il santo prova a salire le infinite e strette scalinate che si trovano dietro ad ogni angolo, in mezzo ad ogni via.

Dicono che “se non vuole salire, non sale”. E se non sale è perché qualcuno non ha rispettato il voto.

Ci risiamo anche noi, i portatori si danno il cambio mentre dall’alto dei balconi scendono bottiglie d’acqua e panini imbottiti. Un misto tra caciara e magia. Chi non ha niente offre, ‘a signura prepara pietanze per la processione, il Santo quasi ci crolla addosso.

Un momento di religioso silenzio. Tutti i cuori e gli sguardi stretti ad un’immagine, alla scena di quell’uomo che, in carrozzella, viene sollevato e portato al cospetto di Calo’. Pesa, è difficile. Ma ci si tiene e ci si riesce.

Berni ed io ci guardiamo commossi: non sappiamo che cosa vuol dire, non lo sappiamo ma lo sentiamo.

Musica, banda, si riparte.

La calca è asfissiante e dura fino a sera; seguono fuochi d’artificio.

Ci ritiriamo raccontandoci la storia di San Calo’ che abbiamo ascoltato il giorno prima: “…allora, San Calo’ è il santo nero che si occupava dei lebbrosi e degli appestati. Nessuno gli si voleva avvicinare ma la gente del posto voleva aiutarlo ad aiutare. Così preparava pagnotte e gliele lanciava dalla finestra. Ecco perché ancora oggi piove sulla statua quel pane ricoperto di sesamo. Ce n’è uno a terra! Lo assaggiamo? Meglio di no.”

E quella statuetta in qualchenonsoddove di Torino finalmente ci parla.

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