I paesi baltici hanno in comune una caratteristica fondamentale: la complessità. Queste tre piccole repubbliche, nate nel 1991 dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, condividono una storia tragica, costituita da molti elementi intrecciati tra loro, ma anche da peculiarità che le rendono uniche. La Lettonia è il paese maggiormente sovietizzato dei tre e vantò addirittura due piccole colonie ai tempi della “Grande Curlandia”, potenza navale secentesca ispirata al modello olandese; la Lituania è la nazione che ha risentito di più dell’influenza della vicina Polonia e della religione cattolica, nonché quella che ebbe il granducato più esteso; l’Estonia il paese più vicino alla Scandinavia, sia geograficamente sia per quanto riguarda la lingua, la cultura e l’economia. Le tre capitali, Vilnius, Riga e Tallin sono molto diverse tra loro, ma fanno emergere tutte un carattere comune: la ricchezza della storia del “secolo breve”, colmo di sfaccettature e problematiche ancora vive nel cuore e nella pelle degli abitanti di queste zone. Condividono infatti alcuni tratti: la scomparsa della comunità ebraica, l’occupazione nazista ed il collaborazionismo, il lungo periodo sovietico e gli incerti esiti della transizione capitalista; ma anche la peculiarità linguistica, l’attaccamento alla natura che si esprime attraverso le “religioni dei boschi”, la crisi identitaria post-sovietica che provoca un interesse verso il proprio idioma, dall’origine unica e la diffusione estremamente minoritaria (uno o due milioni per lingua), nonché l’attaccamento ai balli tipici ed al “canto dei boschi”, mediante il quale questi popoli esprimono la propria indipendenza ed unicità.

L’aspetto della sovietizzazione, con tutte le implicazioni che comporta, è il più noto, il più studiato ed il più criticato. Ciò non toglie che l’analisi degli effetti culturali, linguistici, religiosi e socio-economici del lascito russo-sovietico sia il punto da cui partire, il nodo fondamentale per comprendere il passato ed il presente di questi popoli. Questo non solo per la sua lunga durata, ma soprattutto in quanto è ciò che maggiormente lega i paesi baltici: uniti nelle guerre d’indipendenza scaturite in seguito alla rivoluzione bolscevica che pose fine alla dinastia dei Romanov; nel 1939, anno del patto Molotov-Ribbentrop che comportò l’annessione all’URSS di Estonia, Lettonia e Lituania in modo da ripristinare i confini del vecchio Impero Russo, ma anche momento in cui Hitler ordinò il rimpatrio in Germania o in Polonia Occidentale (nuova colonia tedesca secondo il “patto di non aggressione”) dei baroni baltico-tedeschi, retaggio dello zarismo e dell’odiata nobiltà feudale, già fortemente indebolita dalla cosiddetta “domenica di sangue” del 1905 e dalla nazionalizzazione delle terre successiva alla prima guerra mondiale; negli anni 1941-1945, durante l’occupazione nazista, da molti considerata una “liberazione” dal nemico sovietico; nel marzo 1949, quando in conseguenza della “direttiva del Consiglio dei ministri nr. 390-139 viene dato incarico al Ministero per la sicurezza nazionale di inviare da Lituania, Lettonia ed Estonia (…) kulaki, nazionalisti, banditi e loro sostenitori con le famiglie in luoghi speciali di detenzione” in Siberia; nel 1956, davanti alla distruzione del culto di Stalin voluta da Cruščëv al ventesimo congresso del Partito comunista dell’Unione Sovietica; nel 1968, vivendo la grande frustrazione del non poter partecipare ai moti studenteschi e libertari dell’occidente, costretti a guardare impotenti la “primavera di Praga” e la protesta-suicidio di Jan Palach; negli anni del glasnost e della perestrojka (1985-1991), della “demonopolizzazione della verità” e della “riabilitazione della dissidenza”, ma soprattutto in occasione della “rivoluzione cantata” che coinvolse i cittadini baltici in una catena umana “anti-russa” lunga centinaia di chilometri e che li avrebbe portati velocemente all’indipendenza (certo preceduta dal movimento per la liberazione polacco di Lec Walesa e dal “Gruppo di Helsinki”); infine, nel 2004, con la scelta di entrare nell’Unione Europea e nella NATO e nel 2014 con l’ingresso nell’EURO, lasciandosi alle spalle il passato socialista per puntare interamente sul capitalismo neoliberista, con tutte le contraddizioni che ciò implica.

Il testo Anime Baltiche si apre proprio con il peso dell’eredità sovietica, forse perché comincia con la Lettonia, che conta ancora oggi alte percentuali di russofoni, soprattutto a Riga e nella regione orientale del Latgale, a Rēzekne, dove il lettone ed il russo si dividono equamente, ed ancor più a Daugavpils, dove la minoranza diventa maggioranza, fino a conquistarsi l’epiteto di Маленькая Россия (Piccola Russia). Fu qui che, nell’estate del 1812, Napoleone cercò di abbattere la grande fortezza dell’Impero Russo, importante via di comunicazione tra San Pietroburgo, capitale a quel tempo, e Riga. Ancora oggi è possibile assistere alla ricostruzione della celebre battaglia, con molti soldati, pronti a difendere le mura nel vallone davanti alla fortezza e diversi cavalieri e arcieri, intenti ad attaccare dalla cima della piccola collina. Si tratta di una ricostruzione molto ben fatta, che ci riporta ad una Lettonia inclusa nello Zarismo, ma anche nel delirio di onnipotenza napoleonico, per il quale la Russia fu il sogno più grande e la disfatta definitiva; in un’ironia della sorte per la quale i russi sognavano la Francia e, come Tolstoj, non perdevano occasione di mostrare la loro padronanza della principale lingua europea dell’epoca, mentre i francesi vedevano nella conquista dell’Impero orientale la vittoria definitiva nella grande battaglia globale dell’imposizione militare, economica e culturale. Queste due grandi potenze si sono sempre guardate con rispetto, ammirazione e fratellanza, infatti oggi, se un russo deve andare in Europa, il primo Paese a cui pensa è la Francia; ma anche con timore e distacco, soprattutto in quei momenti di scontro frontale, che però non hanno mai impedito un’intesa letteraria e linguistica importante, dalla storia, forse leggendaria, del termine “bistrot”, che verrebbe dal russo быстро (bistra), cioé veloce, fino alla condivisione di vocaboli quali douche, étage, chauffeur. Nell’arsenale della fortezza si trova il museo Mark Rothko, descritto con maestria da Brokken, che fa davvero venire voglia di andarci; più che altro per immergersi nell’atmosfera di Dvinsk, come si chiamava la città ai tempi in cui ci viveva il giovane pittore (che si è sempre definito russo), prima che diventasse Daugavpils, “Castello della Daugava” in lettone. Desiderio per me ancora inespresso, anche se devo ammettere che, quando mi trovai di passaggio a Daugavpils, proprio nel giorno della commemorazione delle guerre napoleoniche, il mio interesse si focalizzò maggiormente sui palazzoni sovietici dismessi, nei quali entrai, forse in maniera non del tutto legale, per il semplice gusto di curiosare, oppure sulle persone vestite da soldati francesi con cavalli, spade, parrucche, baionette.

Infine, passeggiando, mi ritrovai in un bel mercatino, dove mi innamorai subito di un portachiavi in ferro di epoca sovietica, con la falce e il martello poste sopra la scritta ветеран труда (veterano del lavoro). Costava un euro e, vedendomi senza monete, me lo regalò la direttrice del teatro Yorik di Rēzekne, forse in segno di amicizia per aver sempre mostrato interesse per le attività che proponeva, per aver preso parte ad un viaggio formativo al festival teatrale di Suwalki in Polonia, per la curiosità e la passione con cui cercavo di imparare il russo, oppure, più probabilmente, per semplice simpatia.

Un altro ricordo che ho di Daugavpils è la grande chiesa ortodossa azzurra, con le sue luminosissime cupolette allungate dorate. Un simbolo del cristianesimo di matrice russa, in una città che, ancora oggi, è il simbolo della russofonia nei paesi baltici e che si distingue per essere una grande scuola di questa lingua, frequentata da molti europei e americani.

Questa voglia di comprendere quale fosse l’importanza del lascito sovietico non mi ha mai lasciato, portandomi a lunghe discussioni con diverse persone, oltre che alla necessità di comprendere in maniera concreta quale sia la differenza tra questi paesi oggi e ieri. Per farlo ci sono diverse maniere e, fatta eccezione per l’Estonia, che da qualche anno offre, non appena si varca la frontiera, una sensazione “altra” rispetto alle sorelle Lettonia e Lituania (pur se ne condivide i tratti fondamentali della storia dei “Governatorati baltici”, inclusi nell’Impero Zarista e, successivamente, del “secolo breve” o, come preferisco chiamarlo in questo contesto, “secolo nazi-sovietico”), altrove quasi ogni luogo è buono. Scelgo, in maniera arbitraria -ma non troppo- la cittadina in cui abitavo, Rēzekne, per trattare questo tema. Inutile dire che non ne sentirete parlare in nessun libro, articolo o film, perché, come disse un mio amico francese che mi venne a trovare, “qua siamo davvero ai confini del mondo”.

Rēzekne è l’ultima cittadina dell’Unione Europea prima della frontiera russa. Situata tra Riga e Mosca, in epoca sovietica era uno snodo commerciale e ferroviario piuttosto importante, oggi un’estrema periferia di un’Europa che fatica a concepirsi e riconoscersi come tale. Un paesone di qualche decina di miglia di abitanti, molti meno di quelli ufficialmente censiti vista l’enorme emigrazione, che però ha una propria università, due centri culturali, un teatro ed alcune associazioni finanziate dall’UE. Qui le attività ricreative sono poche: andare in bici, passeggiare nei boschi fino a raggiungere Anchupane e salire sulla torre di legno alta trenta metri per godersi il panorama, entrare in vecchi edifici cadenti e inattivi che mostrano la ferita della dissoluzione dell’URSS per queste zone. Il primo mese e mezzo di vita a Rēzekne lo passai nella periferia nord, dopo il cavalcavia, in un grande palazzone davanti al Maxima, supermercato lituano diffuso nei paesi baltici e tristemente noto per un crollo che portò alla morte di 54 persone, per il quale, molti anni dopo, nel 2020, c’è stato un solo condannato, assolti tutti gli altri. Questa storia è nota come la tragedia di Zolitūde, dal nome del quartiere della capitale lettone in cui si consumò il disastro. Accanto a questo supermarket c’è un enorme edificio cadente, nel quale, nonostante il rischio conclamato, decisi di entrare con Aaron, un amico irlandese in visita da me. Le scale danno sul nulla, le scritte coprono tutto, il terreno è pieno di terra, sporcizia e cacche di uccelli; i piccioni hanno fatto il nido in quel che resta dell’Unione Sovietica, mentre i giovani, senza prospettive, infatuati d’occidente, cercano casa altrove. Qui dei rapper della zona, tra le crepe che si aprono nei muri ed il parcheggio davanti al Maxima, hanno girato il video di una canzone in russo, della quale non conosco o non ricordo né il titolo né il contenuto, ma credo parli di giovantù bruciate e alcol. E se pensate che sia un luogo comune, basta farsi un giro da queste parti per notare che l’alcolismo, sotto Mosca come sotto Bruxelles, rimane una piaga immensa, una sorta di mesto trait d’union tra quelle due Unioni, pur così diverse tra loro.

Nei miei numerosi viaggi a Riga scoprii un altro aspetto della Lettonia: la belle époque. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, Riga, terza città dell’Impero Russo dopo Mosca e Leningrado, era una capitale cosmopolita, poliglotta e multiculturale. Un gioiello liberty, adesso nuovamente godibile dopo le ricostruzioni di fine anni ’90 primi 2000, nelle vie Alberta Iela, Elizabetes Iela e limitrofe, dove questa piccola metropoli sembra voler rivaleggiare con Parigi, Bruxelles e Vienna. In effetti la capitale lettone, grazie alla mano di Michail Ėjzenštejn, è la città con la maggiore concentrazioni di edifici Art Nouveau al mondo. Accostati a case in legno e palazzoni sovietici molto numerosi, tali costruzioni ci riportano agli splendori di una belle époque che questa nazione, da quel momento in poi, non ha più vissuto. Insomma una Lettonia pre-nazista e pre-sovietica della quale non si parla molto, pur essendo ricca di fascino e interesse storico-culturale.

“Lo Jugendstil fu il canto del cigno della borghesia. Mentre passeggio per il quartiere art nouveau di Riga, mi viene continuamente da pensare al rammarico del compositore Erik Satie “Sono un uomo molto giovane in un mondo molto vecchio”. In quel mondo molto vecchio la borghesia rispolverava per l’ultima volta i simboli della civiltà occidentale, con uno sfarzo infinito ma senza lo slancio della giovinezza e del rinnovamento” (Jan Brokken, Anime Baltiche, 2009)

Dopo il canto del cigno della belle époque, valido anche “oltre cortina” (cioè in Europa Occidentale), dove si susseguirono due guerre mondiali e il nazi-fascismo, la storia, in quest’angolo d’Europa, prosegue con l’età sovietica, intervallata dal tragico periodo nazista.

Un altro punto fondamentale della sovietizzazione fu la questione della lingua, molto dibattuta anche in epoca capitalista. Nel 1959, a causa della russificazione imposta nei diversi ambiti di vita, fu sospesa l’obbligatorietà del lettone nelle scuole, anche se questa lingua (ma anche l’estone ed il lituano) non sarà mai annichilita del tutto, ma convivrà a fianco del russo fino al 1991 e dopo. Ancora oggi la questione linguistica è importante, i russofoni infatti, nelle due repubbliche più a nord, rappresentano una grande minoranza (mai ossimoro fu più vero di questo) che mostra, da un lato, un atteggiamento (più o meno velato a seconda dei casi) di “apertura” verso il passato sovietico e l’attuale situazione politica russa, dall’altro non ha il minimo interesse riguardo problematiche sociali, ma si caratterizza solo per l’utilizzo del russo come idioma veicolare, di uso quotidiano, in famiglia e sul luogo di lavoro. Far coincidere la lingua russa nei paesi baltici con un determinato atteggiamento politico è molto pericoloso, estremamente banalizzante e fuorviante a causa delle diverse interpretazioni, spesso contradditorie fra loro, che possono essere date; lo posso garantire, avendo conosciuto russofoni culturalmente e socialmente più vicini alla Russia e altri maggiormente legati ai valori dell’Unione, ed avendo anche notato un graduale avvicinamento tra le due comunità, pur se ancora non privo di contrasti. Non si può negare che la russificazione linguistica rappresenti uno tra i maggiori problemi della transizione in atto, tuttavia, se nel 1959 fu sospesa l’obbligatorietà del lettone nelle scuole, dal 2004 sono state soppresse le scuole dove si insegnava solo il russo e dalla fine del 2018 è ufficialmente iniziato, nonostante le proteste di buona parte della popolazione, lo “smantellamento” della lingua russa in scuole e università, la “vecchia lingua sovietica” verrà portata avanti solo da chi la ha già iniziata, per il resto è previsto un potenziamento dell’inglese, la “nuova lingua liberale”.

Così, circa 300.000 lettoni ex-sovietici (ma anche 85.000 estoni con il “passaporto grigio”), dopo il collasso dell’URSS, si trovarono ad essere “non cittadini”: sono i cosiddetti “nepilson”, ossia tecnicamente apolidi dal 1991. Si tratta di persone di lingua russa che, sulla base di una non conoscenza della lingua e della storia lettone (o estone), vengono private dal governo di una cittadinanza definita, quindi impossibilitate a muoversi nell’area Schengen come i propri “connazionali” lettoni ed europei, ma conservano forti legami con la Russia, dove possono recarsi senza bisogno di visto. Tale imbarazzante problema mostra da un lato come la forza e la pervasività della “vecchia unione” sia ancora molto forte, ma anche i limiti e le fragilità della “nuova unione”. Il punto centrale di questo problema è proprio la questione linguistica, il difficile rapporto tra russofoni e non, che, pur nell’impossibilità di irrigidire le definizioni, mostra, almeno in parte, una differente concezione di se stessi e del mondo, anche se, come disse giustamente una signora che intervistai a Rēzekne, “è difficile agire su queste situazioni con i mezzi attuali, perché prima eravamo tutti parte di un grande progetto e di una grande nazione: l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche”. Occorre tuttavia dire che, grazie alla risoluzione parlamentare del 17 ottobre 2019, secondo la quale i figli dei “nepilson” saranno automaticamente lettoni, quindi ordinari cittadini dell’Unione Europea, tale problema appare già parzialmente risolto, segno che quell’integrazione all’occidente, voluta con l’ingresso nell’UE, nella NATO e nell’EURO, è avvenuta, mostrando un rapido passaggio, ancora in fieri e colmo di dubbi e interrogativi, dalla sovietizzazione all’europeizzazione. Lo stesso si può dire riguardo l’apertura del museo del KGB nel 2014 e degli archivi segreti del KGB un anno fa, simboli di un passato che non può più essere nascosto, ma, dopo essere affrontato, deve essere reso pubblico, cercando un equilibrio tra la condanna degli errori commessi e la critica dei limiti e dei problemi insiti nel nuovo sistema.

Ancora oggi il rapporto tra iniziativa privata e garanzia pubblica, libertà e controllo nel paragone tra sistema socialista sovietico e capitalismo neoliberale europeo, si presenta come un problema irrisolto o quantomeno estremamente controverso dal punto di vista socio-economico e religioso-identitario. Gli abitanti di queste zone adorano le libertà post-sovietiche, ma molto spesso si trovano troppo sguarniti da un punto di vista economico per poterne godere, infatti, come disse un signore che intervistai “prima potevi avere tanti soldi, ma non c’era nulla da comprare. Oggi puoi comprare qualsiasi cosa, ma non hai i soldi per farlo”. (Bernardo Bertenasco, Generazione sovietica e generazione europea a confronto, 2017)

I cittadini baltici soffrono di un senso di insicurezza circa il futuro, sono delusi dalle grandissime differenze sociali del capitalismo e dai costi esorbitanti di servizi prima pubblici, che nella neolingua del liberismo economico chiamano “gratuiti”, come l’abitazione – in Unione Sovietica non esisteva il “mercato immobiliare” -, la telefonia – nessuna “offerta”a pagamento -, l’istruzione – prima del 1917 nell’Impero Zarista il 90% della popolazione non sapeva né leggere né scrivere, in epoca comunista l’analfabetismo fu eliminato – e le cure mediche affidate alla sanità pubblica, che adesso, con l’apertura al “mercato”, si caratterizza sempre più per la “aziendalizzazione degli ospedali”; tale sistema sanitario pubblico si rivelò, stando ai dati forniti, efficace nel contenimento delle epidemie di difterire in epoca sovietica, molto meno in quelle diffusesi in seguito negli stati liberali post-sovietici. Tuttavia è indubbio che le persone di questi paesi sono contente delle libertà ritrovate ed uno dei mezzi con cui lo mostrano di più è la religione.

L’ateismo di stato, imposto dal razionalismo scientista sovietico, piegò le coscienze dei lettoni e degli estoni, ma ancor di più dei polacchi e dei lituani, fortemente cattolici; i primi, promotori del movimento di liberazione di ispirazione religiosa Solidarność molto vicino a Papa Wojtyła, i secondi, che hanno fatto della croce il loro simbolo nazionale. L’attacco alla religione, rivolto a ebrei, cattolici, ortodossi e luterani, ma anche sciamani, musulmani e buddisti sul suolo russo, ha creato un grande revival religioso dopo la caduta del muro di Berlino: oggi in europa occidentale viviamo nel mondo post-religioso, in europa orientale in quello post-ateo.

Il significato della religione in questi luoghi è molto forte, ma possiede delle differenze significative a seconda del paese.

“Cattolici, ortodossi, luterani, neocatecumenali, sciamani e pagani. L’importante è credere. Per opporsi al passato scientifico e rigoroso del comunismo, per trovare un’identità nazionale, per distinguersi, per curiosità, per novità. A Gesù, alle divinità della natura, all’ignoto, al piacere di ballare insieme senza porsi troppe domande.

Così rinasce la Dievturiba, una sorta di politeismo pagano pre-cristiano diffuso in Lettonia e Lituania. Le due repubbliche baltiche, a differenza dell’Estonia che sembra aver chiuso la propria partita con la religione, hanno visto rinascere le proprie tradizioni popolari dagli anni ’90 in poi. Entrambi paesi caratterizzati da una forte presenza della natura ed una scarsa popolazione si sono da sempre rivolti alle divinità “del bosco”. Al cielo, alla terra, all’acqua. Molto tardi e senza troppa convinzione al culto cristiano, insediatosi stabilmente solo nel XIII secolo, facendo di quest’area l’ultima ad essere stata cristianizzata in Europa. Ma mai del tutto diffusosi, prima a causa della non conoscenza del latino dei popoli locali, poi per imposizione del Cremlino, infine per resistenza pagana al cristianesimo.” (Bernardo Bertenasco, Il ruolo della religione nei paesi post-sovietici, 2017)

Tutti e tre i paesi, Estonia in primis, ma seguita molto da vicino da Lettonia e Lituania, sono caratterizzati da una grande presenza di foreste, tanto da favorire, oltre al ritorno alle diverse confessioni cristiane, la divinizzazione della natura (parzialmente riscontrabile anche nella “atea Estonia”); infatti, come diceva Mircea Eliade, “the manifestation of the sacred in a stone or a tree is neither less mysterious nor less noble than its manifestation in a ‘god’.” (Andrei Znamenski, The beauty of the Primitive. Shamanism and western imagination, 2007)

La spinta verso il panteismo è molto forte in paesi nei quali il rapporto con la natura è essenziale, libero e diretto; dove fiumi, laghi e boschi occupano la metà dell’estensione nazionale e nei quali molte tradizioni popolari, come quella del ballo e dei canti, ma anche del solstizio d’estate, si svolgono all’aperto. Il 21 giugno, il nostro San Giovanni, in Lettonia è Jānis (nome maschile maggiormente diffuso in questo paese) ed è una festa fondamentale.

“Questi in Lettonia sono giorni importanti. Si celebra Janis, la festa pagana della rinascita della natura, il solstizio d’estate che rompe la monotonia dell’inverno. Si rievocano tradizioni antichissime: le corone di fiori sulla testa delle donne, il salto del fuoco, la riattualizzazione dei culti magici e agrari della mitologia lettone.

Il pantheon baltico rivive. La palingenesi vegetale e animale è anche e soprattutto umana. Si distrugge e si ricrea, senza sensi di colpa cristiani, senza rimorsi, senza riserve. Si celebra la fine della neve, delle piogge, dei ghiacci che a volte sembrano perenni. E lo si fa con tanta birra, facendo il bagno nel lago o nel fiume, restando svegli tutta la notte per ammirare l’alba alle 3 del mattino.

Le notti bianche, le albe rosa, i giorni infiniti. (…)

La spiritualità lettone è composta da tanti simboli geometrici che rappresentano il sole, la pioggia o la terra. Ad esempio la svastica possiede un significato completamente diverso da quello occidentale; qua è un simbolo di virilità, fuoco, forza. La si regala ai ragazzi in segno di rispetto o amicizia. Il serpente invece è un segno femminile, simboleggia la saggezza. C’è poi il simbolo principe, il Laima, la divinità del destino. Infine vi è la sconfinata simbologia legata alla fertilità, per la quale vi sono svariati segni che ricordano l’inscindibile legame con la campagna e l’agricoltura, principalmente di sussistenza” (Bernardo Bertenasco, Ovunque tu sia, 2019).

Esiste un deus sive natura, un profondo “sentire politeista, neo-pagano, ambientalista” del pantheon baltico; tuttavia non si può non tenere conto dell’importanza del cattolicesimo, del luteranesimo e del cristianesimo ortodosso, ma ancor di più della tragica storia dell’ebraismo, oggi quasi scomparso, messa in luce molto bene nel capitolo di Anime Baltiche sulla Lituania, ossia su quando Vilnius, città stupenda che visitai in un inizio di primavera estremamente mite e soleggiato, era chiamata Vilné in yiddish.

Nel 1914 metà della popolazione di Vilnius era di origine ebraica. L’eccidio fu grandissimo ed il piano diabolico di Hitler funzionò: oggi rimangono pochi ricordi e qualche edificio; ma le persone non ci sono più e senza di loro la cultura muore, privata del patrimonio più grande, la vita. Vilnius era chiamata “Gerusalemme del nord”, ma adesso per comprenderlo occorre saperlo e ricercarne ossessivamente le tracce: la Lituania odierna è un paese molto cattolico, simile alla Polonia nella sua dinamica religiosa post-sovietica.

I lituani oggi ce la stanno mettendo tutta per progredire dal punto di vista economico e per adeguarsi alle richieste culturali dell’europa unita, l’inglese supera il russo, il marketing e l’economia superano la letteratura, la storia e la filosofia; il rischio insito dell’adeguamento cuturale all’occidente però, non è solo quello della nascita oppositiva dei “nazionalismi identitari”, ma anche quello della “dimenticanza storica”, ovvero della mancanza di consapevolezza circa il proprio passato o dell’occultazione, ideologica o no, di una parte di questo.

Infatti qui, come in Lettonia ed Estonia, l’eccidio non sarebbe avvenuto senza l’ausilio dei collaborazionisti locali. Di questo parla giustamente Rikken nel suo capitolo sulla “Lituania dimenticata” e lo fa Pipino nel suo articolo storico-politico su questo paese.

“La sinagoga più grande era la più grande del mondo, e accogliava tremila fedeli. Delle cento sinagoghe, o “scole”, novantanove sono state incendiate, bombardate, rase al suolo, fatte a pezzi o, nel migliore dei casi, demolite (…) Il cuore pulsante di Vilnius, il ghetto ebraico, è stato amputato dalla città. Quello che resta non è che una mummia risistemata ad arte. Vilnius porta tanti nomi quanti sono i padroni che si sono avvicendati nella sua dolorosa storia: Wilno in polacco, Wilna in tedesco, Vilnius in russo, Vilné o Wilne in yiddish, Vilnius in Lituano”  (Jan Brokken, Anime Baltiche, 2009)

Così, continua Pipino, “Capire cosa rimane della shoah nella coscienza collettiva della Lituania odierna non è facile. Un libro in particolare, Mūsiškiai (I nostri) della giornalista Ruta Vanagaite, ha contribuito ad aprire il dibattito sullo sterminio degli ebrei, facendo luce sull’antisemitismo precedente all’occupazione tedesca e sulla partecipazione della popolazione locale ai massacri compiuti tra il 1941 e il 1944 (…) Il suo lavoro ha comunque toccato un nervo scoperto. “Il senso di colpa è un sentimento complicato da elaborare e da esprimere”, riconosce Vaidas Saldžiūnas, giornalista del sito d’informazione Delfi, attivo in tutti e tre i paesi baltici. Le responsabilità furono essenzialmente personali, ma riguardarono diverse migliaia di persone, molte di più di quanto si è creduto per decenni. E nessun colpevole è mai stato punito. Tra i lituani c’è ancora una certa ritrosia ad accettare che i loro antenati siano stati colpevoli di simili atrocità. Si cercano scuse, argomenti e alibi che possano essere usati per scagionare o giustificare i collaborazionisti, che si schierarono con i tedeschi anche in funzione antisovietica (…) Un altro ostacolo al riconoscimento dell’unicità della shoah è la tendenza, anche istituzionale, a equiparare le sofferenze patite dai lituani per mano dei sovietici – deportazioni nel gulag, esecuzioni – allo sterminio degli ebrei. Raccontare l’occupazione sovietica come genocidio lituano, come fa il più grande museo storico della città, ospitato nell’ex sede del Kgb, non fa che confondere le cose e alimentare l’equivoco” (Andrea Pipino, Breve guida alla scoperta della Lituania, 2019)

Anche l’Estonia pagò il suo debito con il nazismo, il 19 settembre 1944, mentre l’Armata Rossa avanzava velocemente verso ovest, il campo di concentramento di Klooga fu liquidato in un solo giorno. Inutile dire che, anche qua, senza l’aiuto dei collaborazionisti, questo eccidio non si sarebbe potuto avverare; eppure avvenne, a pochi chilometri dalla capitale Tallin, come fu per Vilnius e Riga. Vennero uccise circa 2000 persone e, il 24 settembre 1944, ci fu la liberazione per mano sovietica, che diede inizio così a quella che per alcuni fu la libertà dall’oppressore nazista, per altri l’occupazione russo-sovietica.

A Riga avvenne lo stesso, si consumò un eccidio a pochi chilometri dalla città. Scrivono benissimo al riguardo Andrew Ezergailis, nel suo The Holocaust in Latvia, 1941-1944 e Marina Jarre in Ritorno in Lettonia. L’autrice, italo-lettone di origini ebraiche e valdesi, visse quasi tutta la sua vita a Torino, dopo essere fuggita dalla Lettonia all’età di nove anni. Negli anni ’90, in piena transizione democratica, decide di tornare dove nacque e scopre l’enorme dimenticanza del periodo nazista in questi luoghi piegati dalla lunga sovietizzazione imposta.

“È facile farsi raccontare dei gulag e delle detenzioni in Siberia, luogo simbolo della repressione stalinista, metafora della morte, zona indefinita dove si concentrò il dolore di molti lettoni, estoni e lituani. Nessuno però vi parlerà della strage nazista di Rumbula, bosco vicino a Riga nel quale in soli due giorni furono uccise circa 30.000 persone. Si tratta del 30 novembre e dell’8 dicembre 1941, in pieno olocausto. Gli storici stimano che senza l’aiuto dei collaborazionisti lettoni ciò non sarebbe stato possibile (…)

Marina Jarre, nel suo libro Ritorno in Lettonia, è costretta a prendere atto della “dimenticanza” del periodo nazista in Lettonia. Avrebbe avuto una salvifica funzione antisovietica negli anni ’40 e poi non si sarebbe dovuto più ricordare dopo la caduta del muro di Berlino, sminuirebbe il valore della Lettonia agli occhi dell’Unione Europea e cancellerebbe dalla memoria l’infamia sovietica (…)

La Jarre racconta di come gli stessi turisti tedeschi si trovino a fare autocritica al Museo dell’Occupazione, secondo molti di loro le informazioni riguardo agli anni dell’occupazione nazista sono insufficienti. L’ex direttore del museo si disse “perplesso di fronte a tali commenti” sottolineando che in ogni caso “è l’esperienza del gulag il trauma dei lettoni” (Bernardo Bertenasco, Le ferite aperte della Lettonia con il nazismo, 2017)

Per concludere, l’uso dell’espressione “secolo nazi-sovietico” è quindi da intendersi tenendo in conto la “dimenticanza” delle ferite naziste nei paesi baltici, in una sorta di revisionismo storico con una gerarchia delle dominazioni che mostra una grande coscienza critica relativa alla russificazione a fronte di una memoria quasi nulla riguardo il collaborazionismo in Estonia, Lettonia e Lituania: niente a che vedere con l’astorica norma dell’Unione Europea del 2019 che ha parificato nazismo e Unione Sovietica. Per quanto concerne invece il futuro di questi paesi in piena transizione post-sovietica, come abbiamo visto ancora in atto da tanti punti di vista; identitario, economico, religioso, linguistico e normativo tra gli altri, è certamente difficile fare pronostici, soprattutto alla luce di quel conflitto aperto tra “libertà post-comuniste” amate dal popolo ed impossibilità a renderle effettive a causa di un’economia di mercato in “crisi perenne”, appesantita dall’adozione della moneta unica e dalla stagnazione dei salari, bloccati a poche centinaia di euro mentre il costo della vita continua a crescere, ma anche per quel difficile e non sempre voluto adeguamento culturale ai valori dell’occidente (individualismo, consumismo, anglofonia, agnosticismo…); lo stesso che sta continuando a diffondere i “nazionalismi identitari” in tutto l’est-Europa. Ma forse la crisi del coronavirus in atto porterà ad una rivincita del welfare, della redistribuzione del reddito e della sanità e istruzione pubbliche di livello. Insomma, la via post-sovietica non sarà necessariamente neoliberale, nazionalista o europeista che sia, ma, perché no, rivolta più oltre il Mar Baltico che oltre oceano, mirando alla creazione di una social-democrazia illuminata secondo il modello “nordico”, come gli stessi cittadini baltici amano definirsi, più che ad un capitalismo della disuguaglianza in stile americano.

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Venuto al mondo nell’anno della fine dei comunismi, sono sempre stato un curioso infaticabile e irreprensibile. Torinese per nascita, ho vissuto a Roma, a Bruxelles e in Lettonia. Al momento mi trovo in Argentina, dove lavoro all’università di Mendoza. Scrivo da quando ho sedici anni, non ne posso fare a meno. Per ora ho pubblicato diversi articoli, un breve saggio e un racconto, “Ovunque tu sia” è il mio primo romanzo.

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