Ciao Santiago. Allora sei italiano o uruguaiano?

Domanda difficile. Ero italo-uruguaiano, ora sono solo uruguaiano. Come posso spiegarti? I discendenti che nella mia famiglia hanno un legame con le origini italiane non conoscono veramente l’Italia, ma si sentono italiani. Anche per me era così, però quando mi sono trasferito a Roma ho capito di essere totalmente uruguaiano, straniero, americano. Mi ha colpito una conoscente mia connazionale che, avendo avi italiani e il passaporto italiano, come molti di noi, si è definita italiana pur non conoscendo minimamente “lo Stivale”: ha espresso precisamente ciò che pensavo anch’io prima di trasferirmi qua, nonché la convinzione della maggior parte dei sedicenti italo-uruguaiani.

Si tratta di un sentimento creato, di gruppo, familiare, immaginario.

La domanda che mi pongo adesso invece è: cosa significa essere uruguaiano? Non mi sento uruguaiano in termini identitari o nazionalisti, quanto piuttosto semplicemente perché la maggior parte delle persone importanti della mia vita si trovano a Montevideo o in altre zone del Paese. La pandemia ha risvegliato la vulnerabilità nella mia vita, e di fronte al rischio sanitario, economico, psicologico l’Uruguay è casa. Il fatto che bevo mate o mangio asado è totalmente secondario rispetto al legame atavico che ho con l’Uruguay; d’altra parte mangio pasta, pizza e bevo caffé, ho vissuto in italia per anni e parlo italiano correntemente, ma, come già dicevo, sono totalmente uruguaiano.

Raccontaci il percorso biografico che ti lega ad entrambi i Paesi.

Fino ai cinque, sei anni ho vissuto in casa di mia nonna a Montevideo con i miei zii e i miei cugini. Tutti chiamavamo nostra nonna con la parola italiana nonna, anzi “nona”, con una sola enne, e non abuela come si dovrebbe in spagnolo. Lei si sentiva italiana e ci faceva sempre partecipare alla riunione annuale dei Dossetti: ci trovavamo in cento, tutti diversi e provenienti da differenti parti del Paese, ma indissolubilmente legati dall’origine italiana. Si tirava fuori l’albero genealogico e si cercava di ricostruire la storia della famiglia.

Il mio trisnonno Giacomo Dossetti venne in Uruguay alla fine dell’Ottocento dal Piemonte. La povertà e la miseria spinsero lui, come molti altri, a scoprire terre libere e vergini quali l’Uruguay e l’Argentina. Dall’Europa venivano a centinaia di migliaia in quei tempi e la memoria non si è mai dimenticata. Mia “nona”, quando l’Italia vinse la coppa del mondo nel 2006, pianse per l’emozione: lei è una Dossetti e si sente intimamente italiana, anche se c’è stata solo una volta con un tour europeo organizzato, di quelli che mischiano Parigi, Roma, Londra. Questo legame con un altro luogo dal mio da piccolo mi scioccava: ero anche italiano? Davvero venivamo da una nazione, un continente diverso dal nostro?

Da qui nasce la necessità di scoprire l’Italia: Paese del quale io “ero originario”. Per questa ragione fondamentale ho deciso di trasferirmi a Roma e di studiare storia moderna e contemporanea per comprendere meglio i flussi migratori nella loro complessità, dei quali anch’io, a mio modo, faccio parte.

Nona: splendido lascito del lunfardo e del cocoliche rioplatensi sorti grazie alla grande emigrazione di fine Ottocento. Nei Dossetti c’è una risposta ad un desarraigo antico che sembra uscire dalle pagine di un romanzo, mischiandosi con una semplicità stupenda: ricordo la nona mentre guardava Montalbano in cucina, con la schiera di mate poggiati sul tavolo, che si sovrapponevano ai sottotitoli in spagnolo e alla lingua italiana.

I giorni passati in quella casa montevideana sono stati bellissimi: la tua è una famiglia aperta, fantasiosa e creativa. Venivo da Buenos Aires, dove avevo scoperto, insieme al mio cugino porteño Luis e a Giulia, il fascino della ciudad babelica.

Poi, nell’autunno (primavera europea) 2019, abbiamo organizzato il rencuentro mundial de los Bertenasco a Trenque Lauquen, al quale venne anche mio padre da Torino: fu un onore essere un ponte tra i due rami della famiglia.

L’Uruguay è spesso definito la “Svizzera d’America”. Tu ti senti più europeo o americano?

Prima non capivo che il concetto di “Svizzera d’America” ha senso perché effettivamente l’Uruguay è stato e continua ad essere uno dei Paesi politicamente più stabili dell’America Latina. Lasciando da parte la parentesi triste della dittatura (1973-1985) l’Uruguay è storicamente una nazione solida da molti punti di vista: non abbiamo mai vissuto gli alti e bassi di Messico, Brasile e Argentina.

Negli anni del boom, che in Uruguay coincidono con il secondo conflitto mondiale, ci definivano un País carroñero perché vendevamo molta carne e cereali all’Europa in guerra, arricchendoci sulle macerie belliche del vecchio continente. Siamo inoltre una zona cuscinetto tra le grandi potenze Brasile e Argentina che hanno tutti gli interessi a mantenerne la stabilità e la neutralità. L’Uruguay è anche uno Stato laico da inizio Novecento, un unicum in America Latina per quanto concerne l’aspetto religioso. Lo stesso discorso vale per il welfare: noi abbiamo uno stato sociale molto avanzato che risponde a canoni più europei che latinoamericani.

Siamo molto eurocentristi, forse anche per questo c’è un parallelismo tra “origine europea” e “modello europeo”. Credo che in Uruguay i canoni di sviluppo sociale, come il PIL pro capite, l’accesso all’istruzione e alla sanità, si mischiano all’idea di una retorica di appartenenza europea. Certamente, come scriveva anche lo storico Hobsbawm, l’Uruguay rappresentava un’eccezione nel panorama latinoamericano già nel secolo scorso e continua a farlo.

Quali sono gli aspetti positivi e quali quelli negativi dell’europeizzazione dell’Uruguay?

Il sistema europeo è il più avanzato per quanto riguarda la giustizia sociale, quindi averlo seguito dall’inizio rappresenta una forza. Bisogna dire però che questo “modello europeo” è anche un “modello locale”, nel senso che, pur se coloro che hanno costruito lo Stato Uruguaiano erano europei, lo hanno fatto in Uruguay, con le peculiarità del luogo e le idee che da questo scaturiscono. Inutile affermare che lo status politico post-illuminista della repubblica, della divisione dei poteri e della laicità dello Stato li considero aspetti estremamente positivi.

Ciò che forse è negativo è il nostro vittimismo, ma questo lo dico più a livello sentimentale che effettivamente comprovato da dati concreti: spesso pensiamo di non poter progredire nella maniera corretta perché “siamo un Paese europeo in America Latina”; come se avessimo addosso lo stigma del “terzo mondo” pur essendo originari del “primo mondo”.

Molto interessante il mélange euro-americano dal quale è sorto l’Uruguay, anche se devo ammettere che mi sarei aspettato un commento riguardante il rapporto tra europei, criollos e indigeni, nonché la questione aperta della rottura di quel legame tra natura e cultura che si esplicava nell’adorazione dell’ambiente e nella variegata costellazione di culti agrari locali. 

Tornando alla questione migratoria, che rapporto c’è tra Uruguay e Argentina? Nel numero speciale di Internazionale Storia (“In cerca di fortuna”, 2020), dedicato all’emigrazione italiana, ci sono articoli su Argentina, Venezuela e Brasile, ma nulla riguardo l’Uruguay.

È un discorso che va oltre l’immigrazione, proprio non si parla dell’Uruguay in generale. In Europa, quando dico che sono uruguaiano, le uniche cose che si conoscono del mio Paese sono il calcio, Pepe Mujica e la legalizzazione della marijuana.

Certo, siamo una nazione molto piccola, come fosse la Lettonia nel vecchio continente, ma credo che il tema principale del nostro isolamento internazionale sia quello dell’influenza finanziaria e del modello economico, forse meno graditi a livello globale rispetto ad altri, perché anche il Cile e il Lussemburgo (con una maggiore propensione neoliberale rispetto a un forte welfare il primo, con una preponderanza finanziaria – paradisi fiscali inclusi – rispetto ad un maggiore apporto dell’economia reale il secondo) non sono molto grandi, ma non passano certo inosservati.

Rimane il fatto che guardando i dati sulla disuguaglianza, sulla corruzione, sull’istruzione e sulla produzione di energia pulita, l’Uruguay – insieme alla Costa Rica – è sempre in cima alla classifica dei Paesi latinoamericani. Forse negli ultimi anni si comincia a parlare un po’ di più dell’Uruguay, ma ancora, anche per quanto riguarda i flussi migratori, appare molto legato agli studi sull’Argentina.

Quando sei in Italia cosa ti manca dell’Uruguay e viceversa? 

Ciò che mi manca di più dell’Uruguay quando sono in Italia non è qualcosa di materiale o linguistico, ma il fatto di dover esplicitare cose che non ho mai dovuto spiegare. C’è anche un aspetto affascinante nel dover esternare la ragione per cui si crede che qualcosa sia buono, per esempio riguardo al cibo, perché implica il confronto con gli altri e la messa in discussione della propria cultura; però, soprattutto all’inizio, ho sofferto un po’ il fatto di dover giustificare il modo in cui mangio o cosa bevo, mi sembrava e mi sembra una cosa stupida.

L’aspetto che più mi manca in Uruguay invece è il legame libero con la cultura che c’è in Italia. L’approccio del mio Paese con il sapere mi delude: occorre formarsi solo per fare business. Studiare l’italiano, la storia o leggere romanzi sembra inutile, diverso è il discorso per l’inglese o l’economia: questo approccio utilitaristico alla conoscenza è deprimente. A Montevideo fare uno sforzo senza una prospettiva di reddito è inconcepibile.

In Uruguay non dovrai mai giustificarti per il fatto di studiare storia perché non lo fa nessuno, anzi non è socialmente accettato nemmeno leggere un testo di filosofia o antropologia, semmai un libro di mindfulness o “come migliorare se stessi” e altre amenità del genere.

Il tuo approccio alla libera cultura è fondamentale anche in Europa per sfidare la regressione utilitaristica della scuola e dell’università delle “competenze”, spesso coincidenti con la nuova modalità della didattica a distanza, per le quali l’apprendimento è volto al mero dato tecnico, finalizzato a fare tornare i conti di un’azienda o ad applicare una norma burocratico-procedurale, ma totalmente improduttivo a formare cittadini consapevoli, liberi e colti nel vero senso del termine, quindi spinti ad apprendere per migliorare le condizioni di vita di se stessi e degli altri, nonché capaci di eludere i paletti creati ad hoc per dividere, distrarre, impoverire il dibattito pubblico e le singole coscienze.

L’emigrazione piemontese in America Latina è stata molto importante, tanto da vanificare il detto “piemunteis bogia nen” (i piemontesi non si muovono).

I miei parenti, dal 1897 in poi, sono emigrati in Argentina e si sono stabiliti principalmente nella Pampa e a Buenos Aires: il mio anno di vita a Mendoza mi ha permesso di conoscerli molto bene.

Tu sei stato in Piemonte a cercare la tua famiglia d’origine?

No, non ci sono stato. Appena arrivato in Italia era una delle idee che avevo in mente, ma con il passare del tempo si è affievolita. Credo di non aver avuto il coraggio di essere rifiutato, di sentirmi dire “tu, dopo un secolo, chi sei?”, cosa che razionalmente avrebbe senso. Forse per noi uruguaiani è importante mantenere un legame con l’Italia, proprio perché siamo un Paese piccolo, poco conosciuto, formato da un grande melting pot. L’importanza delle radici ci porta in Europa, in nazioni grandiose come Italia e Francia, con le quali sentiamo di voler ricreare un legame.

Questa domanda mi fa tornare all’inizio dell’intervista: prima mi sentivo italo-uruguaiano e volevo trovarne un riscontro conoscendo i miei avi, poi ho capito di essere uruguaiano e non ho più sentito questa necessità. La scelta di andare a studiare a Roma si è basata anche su una pseudo-identità italiana, una costruzione storico-identitaria a cui siamo affezionati, ma in realtà casa mia dista 11.000 km da qua e si trova in un altro continente. Il mio legame con l’Italia, in particolare con la capitale, è forte perché ho vissuto là e ho avuto la fortuna di creare dei legami di amicizia veri; la cittadinanza, la discendenza e lo ius sanguinis non c’entrano nulla.

Ultimamente, forse anche a causa della crisi socio-economica acuitasi con la pandemia, pare ci sia un aumento di cittadini uruguaiani e argentini di origini piemontesi, la maggior parte proprio della provincia di Cuneo come i tuoi avi, che cercano di ottenere il riconoscimento della cittadinanza iure sanguinis: in questo modo potranno liberamente recarsi nei Paesi sviluppati del Nord-Europa.

Potremmo dire, pur con le limitazioni che queste definizioni creano, che sei un migrante economico, culturale, identitario? Oppure senti di appartenere alla cosiddetta “migrazione di ritorno”?

Bella domanda, non saprei come cominciare. Fortunatamente non sono un migrante economico, anzi la mia situazione finanziaria è un po’ peggiorata in Italia, anche se certo non mi lamento perché sarebbe immorale nei confronti di chi è veramente in difficoltà. Il cambio da Peso Uruguayo a Euro poi è totalmente sconveniente. La mia è una migrazione desiderata, di un giovane di classe medio-alta che sente che l’Uruguay è un Paese piccolo, noioso, limitante e vuole allargare i propri orizzonti.

Poter vivere a Roma è stata l’esperienza più arricchente della mia vita: qua ho potuto conoscere persone di tutto il mondo e mischiare moltissime realtà, lingue e culture in una sola città. Questa curiosità verso la differenza sta spingendo altri ragazzi uruguaiani della mia età e della mia condizione sociale a migrare, a scoprire qualcosa di “altro da noi”, perché in Uruguay siamo tutti uruguaiani, parliamo tutti spagnolo e beviamo tutti il mate.

Vivere a Roma è un privilegio inestimabile: la nostra capitale è un luogo unico dalla bellezza ineguagliabile. Si tratta di una fonte inesauribile di risorse, di una metropoli caratterizzata da un insieme infinito di stratificazioni storiche, religiose, antropologiche, artistiche. Roma è la città dei Bacchanalia e di Costantino, del Colosseo e di San Pietro, rinascimentale e razionalista; c’è uno dei ghetti ebraici più antichi al mondo e la Grande Moschea dei Parioli, ci sono gli acquedotti del Mandrione e Porta Pia, le opere del Bernini e la street art. Roma è anche la città dei movimenti politici e intellettuali, del cinema e della letteratura, dell’archeologia classica e delle avanguardie del Novecento. Impossibile infine  dimenticare il luogo in cui ci siamo conosciuti: la più grande università europea, La Sapienza.

Credi che gli italiani – e quando dico italiani intendo quelli in Italia e non la comunità italiana all’estero abbiano una coscienza adeguata del fatto che sono principalmente un popolo di migranti?

Per niente. Anche all’università, addirittura nella facoltà di storia, questo aspetto si menziona solo in maniera marginale, di solito connettendolo con il boom della disoccupazione di fine Ottocento e del secondo dopoguerra o con la questione delle rimesse migranti, utili alla ricostruzione post-bellica dell’Italia. Non so se ci sia una sorta di vergogna del proprio passato o semplicemente una voglia di non approfondire un fatto totalmente naturale, cioè quello di emigrare per cercare condizioni migliori. D’altra parte non esistono popoli stabili e puri, il movimento è connaturato all’esistenza degli esseri umani.

Sono d’accordo, il popolo italiano dovrebbe confrontarsi maggiormente con la propria storia, anche per comprendere l’attuale esodo che, sommato alle nascite ai minimi storici, fa dell’Italia una nazione con saldo migratorio e demografico negativi. Tuttavia sembra non trattarsi solo di un problema dei giorni nostri, ma di un fatto consolidato nel tempo, infatti come scrive Giardinelli, riferendosi alla retorica mistificante della maggior parte degli immigrati italiani in Argentina alla fine dell’Ottocento, “Los italianos de aquel tiempo eran así: llegaban a este país con una mano atrás y otra adelante, pero todos pretendían haber sido condes, nobles.” (Mempo Giardinelli, El santo oficio de la memoria, 1991).

La mia mobilità rivela un forte legame con i fiumi: il Po, il Tevere, l’Adige, il Canal, il Daugava, il Río de la Plata, ma anche con le montagne delle Alpi e delle Ande. Se tu dovessi scegliere un luogo geografico ed emotivo significativo per i tuoi movimenti transoceanici, quale sceglieresti?

Sono innamorato del Mar Mediterraneo. In Uruguay abbiamo centinaia di chilometri di costa, ma questa è imparagonabile alla bellezza del Mediterraneo. Nel Mediterraneo l’acqua è cristallina, si può ammirare il fondo, si vedono le rocce e la sabbia, mentre da noi, nel Río de la Plata, l’acqua è marroncina, sporca, torbida. Purtroppo però in Italia, con le case, i lettini, i bar e le sedie sulla spiaggia invadete troppo gli spazi naturali, precludendovi la possibilità di un legame puro con l’ambiente.

Il Mediterraneo è anche il luogo del sincretismo per antonomasia, il sostrato storico-geografico su cui poggiano la cultura greco-romana, araba e cristiana da cui discendiamo. Io ho provato la stessa sensazione al contrario, sono rimasto stupefatto davanti all’immensità del Río de la Plata.

[Immagine 1: actualidades.org. Immagine 2: Río de la Plata (Giulia Testi). Immagine di copertina: Aerei (alighieroboetti.it)]

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Venuto al mondo nell’anno della fine dei comunismi, sono sempre stato un curioso infaticabile e irreprensibile. Torinese per nascita, ho vissuto a Roma, a Bruxelles e in Lettonia. Al momento mi trovo in Argentina, dove lavoro all’università di Mendoza. Scrivo da quando ho sedici anni, non ne posso fare a meno. Per ora ho pubblicato diversi articoli, un breve saggio e un racconto, “Ovunque tu sia” è il mio primo romanzo.

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