Ma nuit au jour le jour (la mia notte giorno per giorno) è l’evocativo titolo di un romanzo belga sulla vita di una determinata “categoria umana” alla metà del secolo scorso. Un’esistenza al buio, tra i corridoi sotterranei, in mezzo ai topi al lavoro e nelle baraques con i familiari la sera. Un incessante ripetersi di giornate una uguale all’altra, nelle quali l’unico obiettivo è quello della sopravvivenza per sé e per i propri cari. Ma chi sono questi “abitanti dei bassifondi”? Minatori, immigrati, lavoratori, italiani, abruzzesi. In un’atmosfera di fatalismo, sporcizia e impossibilità materiale di cambiare il corso delle cose o di fare progetti alternativi rispetto alla vita nella miniera, l’autore inventa un personaggio fuori dal coro, un eroe della classe operaia che confessa la sofferenza e la monotonia che caratterizzano la sua esistenza, descrivendo il vissuto della sua gente senza sogni e senza speranze, spesso venuta da lontano, sulla base di dinamiche di politica internazionale a cui non ha preso parte, scappata dalla miseria per ritrovarla altrove, condannata a non poter agire sulla realtà e a dover far spazio alla tragicità del vivere.

“Pourquoi mentir, la simple réalité n’est-elle pas suffisamment tragique?” (Ma nuit au jour le jour, 1953)

C’erano una volta i “macaroní” e i “ritals”, come venivano chiamati i nostri avi emigrati nelle aree francofone nell’Europa del secondo dopoguerra. L’Italia usciva stremata dal conflitto mondiale e sembrava non esserci altra via d’uscita per il Paese se non quella dell’emigrazione forzosa, così il presidente Alcide de Gasperi esortava i giovani a imparare le lingue e a “percorrere le strade del mondo”. A tale retorica dell’emigrazione di massa come “prezzo per la ricostruzione” e “male necessario”, almeno in un primo momento, si opposero il Partito Comunista e la CGIL, secondo i quali l’esodo italiano rappresentava un fallimento del capitalismo nonché un’enorme perdita per la nazione; tuttavia, nel giro di poco tempo, si allinearono al pensiero dello Stato e della Chiesa: l’establishment era finalmente d’accordo, l’esodo di massa divenne la panacea ai mali del Paese. “Cu nesci arrinesci” (chi esce riesce, chi va via trionfa) si diceva in Sicilia. E fu così che in moltissimi si riversarono nel mondo nuovo a “fare l’america”, soprattutto in Argentina e negli Stati Uniti, insieme a quelli che optarono per il vecchio continente, Francia, Germania e Belgio in primis.

Al fine di ovviare alla mancanza normativa e legislativa che caratterizzò il “grande esodo” di fine Ottocento e inizio Novecento – nonostante la creazione, nel 1901, del Commissariato generale dell’emigrazione, poi sciolto da Mussolini nel 1927 -, il presidente democristiano inaugurò la “stagione d’oro” dei trattati bilaterali in tema d’emigrazione prima con la Francia, nel febbraio del 1946, poi con il Belgio, il 23 giugno del 1946. Entrambi gli accordi prevedevano l’espatrio di cittadini italiani destinati a lavorare nelle miniere oltralpe. A questo ne seguirono molti negli anni successivi: alla fine del 1946 con il Regno Unito, nel 1947 con l’Argentina, nel 1950 con il Brasile, nel 1955 con la Germania, nel 1964 con la Svizzera (successivo al primo del 1946). Gli Stati Uniti mancano all’appello perché, dopo la grande ondata migratoria di inizio Novecento, si rifiutarono di firmare altri accordi con il governo italiano.

“À l’heure où la migration des populations est ressentie ou fantasmée par les autochtones comme un mal qui répand la terreur, où elle est rejetée ou pénalisée par les autorités et ses acteurs traités comme des délinquants, il n’est pas inutile de rappeler que des importations massives d’êtres humains ont été sollicitées et même payées en un temps où un homme, italien par exemple, valait encore un sac de charbon. C’est ainsi que les premiers habitants de la Ritalie, sur la foi d’un recrutement prometteur organisé par un protocole d’accords bilatéraux entre leur pays d’origine et le nôtre, sont arrivés par dizaines de milliers, dans l’immédiat après-guerre, en Belgique” (Histoire de l’histoire: il était une fois en Ritalie. 2001)

Gli italiani, impiegati come minatori nei bassifondi della zona meridionale del Paese, fecero della Wallonie (La Vallonia) la “Ritalie” (Il Paese degli italiani). Il piano prevedeva l’invio di nostri connazionali in cambio di una precisa quantità di carbone per l’Italia: un’ottima occasione di approvigionamento energetico per il Paese, un grande rischio per i lavoratori che erano costretti ad accettare le durissime condizioni imposte. L’accordo “bras contre charbon” (braccia in cambio di carbone) rappresenta una “deportazione degli italiani, strappati al loro Paese d’origine (…) una ferita, un obbligo per il quale non occorre nessuna retorica della memoria –nemmeno per Marcinelle-, della celebrazione festosa, perché è una storia che non rappresenta nulla di glorioso o divertente” dice la storica Anne Morelli. (trad. mia, tratto da L’immigration italienne était une déportation, un arrachement à son pays, 2016).

La vita della maggioranza degli immigrati in Vallonia in quegli anni ricorda le storie di altri nostri connazionali emigrati nelle americhe, ma anche quella di tanti africani e asiatici presenti oggi sul nostro territorio (interessante al riguardo il paragone tra “macaroní” e “vu’ cumprà” proposto da Emilio Franzina): salari bassi, condizioni abitative pessime, scarsa considerazione sociale da parte degli autoctoni, irrilevanza politica. Agli italiani in Belgio infatti il diritto di voto fu concesso molto tardi, forse perché in maggioranza simpatizzavano per il Partito Comunista o semplicemente per relegarli a ruolo secondario.

Tuttavia i nostri avi, nell’Unione Europea nascente (la CECA, Comunità europea del carbone e dell’acciaio, fu creata nel 1951), paladina dell’industria estrattiva e dell’emigrazione come oggi lo è della tecnologia, delle start up e della mobilità, resistettero per un decennio al buio delle mine; poi la bomba scoppiò. L’8 agosto 1956, nelle miniere di carbone di Bois du Cazier, divampò un incendio: morirono 262 persone, di cui 136 italiani, abruzzesi in gran parte. Pochi giorni dopo fu aperta un’inchiesta per appurare le responsabilità del caso, ci fu una sola condanna lieve e un risarcimento in denaro ai familiari delle vittime, si arrivò ad un accordo tra le parti nel 1964. La strage di Marcinelle è il terzo incidente per numero di morti tra gli immigrati italiani all’estero, i primi due avvennero entrambi nella meta preferita dall’esodo dei nostri connazionali, gli Stati Uniti d’America. Nel 1956 si bloccano i rapporti diplomatici fra Roma e Bruxelles e l’emigrazione di massa in Belgio viene sospesa.

Oggi non è facile comprendere le esigenze e le paure di quei tempi, presto offuscati dal boom economico degli anni ’60 dell’Italia delle “fabbrichette”, degli impiegati, dell’esplosione del ceto medio, della fiat 500 e delle ferie pagate al mare o in montagna. Quel Paese là, retaggio di un passato che nel XXI secolo appare lontano, esistette principalmente grazie alla palingenesi postbellica basata sui diritti garantiti dalla costituzione e sulla pianificazione e gli investimenti pubblici sostenuti dalla fiscalità generale, ma anche per le rimesse dei migranti e per la loro fuga all’estero, considerata uno “strumento strategico primario per affrontare la ricostruzione” (Dai campi al sottosuolo. Reclutamento e strategie di adattamento al lavoro dei minatori italiani in Belgio, 2009). Noi, pur non ancora del tutto adeguati a gestire la “questione degli immigrati” sia a livello politico sia a livello culturale, siamo stati principalmente un popolo di emigrati e di poveri. L’Italia degli anni ’40 e ’50 era un Paese semplice, composto da contadini e operai; niente a che vedere con la piccola e media borghesia che si formerà negli anni ’60, ’70 e ’80 con l’esplosione del benessere di massa e del fenomeno del consumismo, ma nemmeno con la formazione del nuovo ceto precario economicamente e geograficamente, formatosi dagli anni ’90 in poi a causa dello smantellamento delle politiche sociali e dei diritti dei lavoratori a favore della deregulation, della svalutazione del lavoro a favore della classe dei rentiers che hanno fatto dell’Italia un paese bifronte nel quale è giusto e doveroso sia parlare di grandi “ondate” di immigrati sia di esodi di emigrati. (Per approfondire il tema, oltre ai classici Fischer, Bauman e Piketty, consiglio i testi di Furio Pesci sull’educazione neoliberale e di Federico Chicchi sull’ideologia dominante dell’attualità).

La nostra storia migrante, spesso annacquata da un’inutile retorica o considerata marginale nei programmi scolastici e universitari, può aiutarci a far luce sul passato, ma anche a comprendere l’attualità, caratterizzata da innumerevoli nuove forme di mobilità in entrata e in uscita, che ancora non sappiamo che piega prenderanno in questo “terzo dopoguerra”. Tale periodo post-pandemico (dove il post è piu che altro un buon augurio, per adesso) si annuncia più duro del secondo dopoguerra in quanto, almeno per ora, non mette al centro delle decisioni politiche ed economiche i diritti dei cittadini, probabilmente sempre più propensi a prendere parte alla “nuova grande emigrazione italiana” che, dal 2008 in poi, ha fatto registrare milioni di nuovi iscritti all’AIRE, creando un saldo migratorio reale nuovamente negativo, che si va a sommare all’ormai consolidata mobilità interna sud-nord. (Utile al riguardo il testo, scaricabile gratuitamente su academia.edu, di Federica Bertagna “Italy: migration 1815 to present”). Insomma nuove e vecchie emigrazioni si mischiano, tra chi scappa per trovare lavoro, per sfuggire all’arretratezza culturale del proprio luogo d’origine, per esprimere il proprio potenziale oltre confine, per inseguire l’amore straniero, un sogno o una chimera: quella dell’emigrazione è una polifonia complessa che non si può racchiudere in definizioni banalizzanti come “fuga di cervelli” o “migranti economici”, ma piuttosto nella complessità di cui parlano gli autori de Il manifesto di Londra e altre realtà internazionali.

Anche se poi, dimensione transnazionale a parte, come canta Claude Barzotti, “je suis rital et je le reste”.

CONDIVIDI
Venuto al mondo nell’anno della fine dei comunismi, sono sempre stato un curioso infaticabile e irreprensibile. Torinese per nascita, ho vissuto a Roma, a Bruxelles e in Lettonia. Al momento mi trovo in Argentina, dove lavoro all’università di Mendoza. Scrivo da quando ho sedici anni, non ne posso fare a meno. Per ora ho pubblicato diversi articoli, un breve saggio e un racconto, “Ovunque tu sia” è il mio primo romanzo.

NESSUN COMMENTO

LASCIA UN COMMENTO