Si chiamano Salvatore Murgia e Theo Putzu gli autori di questa performance di video mapping realizzata in occasione del Next Step, festival di arte e nuove tecnologie digitali. La loro partecipazione al concorso risale all’ottobre 2012 valendogli il primo posto. Questa nuova rappresentazione visiva, fusione di arte e tecnologia, non è ancora molto diffusa in Italia. Le prime forme di video projection mapping risalgono a qualche anno fa e solo recentemente stanno prendendo piede anche nel nostro Paese. Si tratta di una tecnica di proiezione evoluta in grado di trasformare qualsiasi superficie reale in un display dinamico mediante la proiezioni di immagini. L’iniziativa è stata realizzata dalla piattaforma “Milano in Digitale” promossa dalla Fondazione D’Ars Oscar Signorini onlus di Milano.

L’idea di base nasce dal primo tentativo dei due artisti di scomporre geometricamente una struttura architettonica, seguendo un criterio di destrutturazione concettuale della realtà.
Il contest ha rappresentato l’occasione per realizzare questa sperimentazione. La location che ha ospitato la proiezione è stata scelta dagli organizzatori, che hanno messo a disposizione degli artisti la mappatura e il rilievo dell’intero edificio, il Chiostro dei Glicini in via San Barnaba a Milano.
Lo sviluppo del progetto è avvenuto in tempi molto rapidi, seguendo sin da subito quella linea minimale che contraddistingue il risultato finale. Il loro concept richiama l’elaborazione di un disegno sintetico sviluppato nella maniera più funzionale possibile, evitando la sperimentazione di diversi stili integrati tra loro che avrebbero potuto conferire un cattivo gusto estetico alla proiezione. Il motivo principale del cattivo gusto consapevole, che molto spesso risiede in questo tipo di opere artistiche, deriva dal tentativo di attrazione e seduzione del pubblico di riferimento da parte dei video makers. In questo caso i due artisti digitali hanno sviluppato un ragionamento opposto, raggirando e restituendo il fattore scenico ai loro spettatori attuando una ricerca sulle forme primitive. L’archetipo si configura come il pilastro portante dell’intero iter progettuale, agevolando il concetto di sintesi strutturale attraverso la scomposizione dell’architettura del luogo per singoli elementi geometrici ovvero il punto e la linea. Un progressivo ritorno alle origini di qualsiasi cosa ci circondi, nel quale non è stato risparmiato il Chiostro dei Glicini. Tutto nasce da punti, i punti creano linee, le linee blocchi geometrici secondo una teoria di digressione crescente.

La rappresentazione digitale di questo concetto minimalista ha riscontrato non pochi problemi che avrebbero potuto mettere in ombra l’effettiva riuscita del progetto. Questo perché il projection mapping è stato frequentemente associato all’idea di commercialità, seguendo le leggi dettate dal dominio del sistema pubblicitario, nel tentativo di attrarre il pubblico facendo leva sulla dinamicità delle immagini piuttosto che sulla tecnica adoperata. Il concettuale, al contrario, mira alla non ciclicità visiva, alla non ripetizione di proiezioni che possano facilmente cadere nel banale. L’intento è quello di evitare l’“abitudine ottica” degli spettatori, con conseguente distacco nei confronti dell’installazione.
La differenza che intercorre tra queste due modalità di approccio visivo è la stessa che passa tra cinema commerciale e cinema d’autore.
In questo contesto, la partecipazione del singolo individuo alla visione dell’opera garantisce valore aggiunto. Il singolo individuo è parte della rappresentazione, è un dettaglio integrante del progetto senza il quale l’opera non potrebbe funzionare totalmente, non raggiungendo la sua massima espressione comunicativa.
Oltre allo spettatore attivo, il secondo elemento che ha incrementato il valore simbolico di questo lavoro è stato il concetto di unicità della proiezione. Gli elementi architettonici del chiostro hanno rappresentato i punti di ancoraggio del loro concept, interagendo direttamente con l’installazione visiva. La riproduzione è adattata unicamente per quel tipo di struttura architettonica. Il risultato che ne scaturisce è l’irripetibilità della proiezione su una facciata diversa da quella pensata in origine, con l’intento di non adattare l’opera in funzione della facciata, con conseguente perdita di valore simbolico, ma la facciata in funzione dell’opera. Il risultato finale coinvolge nettamente la sfera visiva e uditiva dello spettatore, suscitando un insieme di forti sensazioni emozionali, che possono essere vissute unicamente in quel preciso luogo di fronte quella precisa struttura. È l’architettura in esame a suggerire il progetto.
In perfetto sincrono concettuale con il canale video è quello audio. Il minimalismo del suono si evolve a partire dal concetto di “glitch”, un picco improvviso di breve durata causato da un errore non prevedibile.

Il nome dell’opera si riallaccia all’idea di anomalia, “ERROR”, configurandosi al tempo stesso come un paradosso, in quanto l’errore audio-video volutamente ricercato diventa la forma espressiva del progetto. Il logo di rappresentazione è un codice a barre comunemente costituito da linee, richiamando l’intera filosofia del concept.
Complessivamente questo loro primo tentativo di video mapping ha rappresentato una sorta di provocazione a causa della forte carica minimale, ponendosi controcorrente rispetto alle proposte esistenti.
D’altronde lo stesso Bruno Munari in “Verbale scritto” ha evidenziato un pensiero che sarebbe diventato un futuro fattore competitivo per molti progettisti: “ Complicare è facile, semplificare è difficile”.

 

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