L’attuale mostra alla Strozzina, Territori instabili-confini e identità nell’arte contemporanea, affronta un tema delicato che presenta inevitabili implicazioni politiche, svolto tuttavia, in alcuni casi, in modo così concettuale e astruso da risultarci labile e non in grado di arrivare al visitatore.

Abbiamo scelto alcuni artisti, i cui lavori saranno analizzati da una prospettiva critica.

Sul bugnato rinascimentale di Palazzo Strozzi e all’interno del cortile, vi sono delle strutture singolari che possono essere scambiate per impalcature montate per dei restauri, ma che si trattano invece delle installazioni create dal giapponese Tadashi Kawamata. Esse sono simili a dei nidi, realizzate con legname vario e definite addirittura come dei cancri, apparendo in effetti come delle appendici posticce ed estranee. Quella interna (nella foto) è stata realizzata in soli 4 giorni, con la collaborazione di alcuni studenti di architettura. Tali opere di Kawamata sono indifferenti al contesto in cui sono state impiantate, totalmente chiuse alla realtà, a se stanti, e semplicemente brutte. Geniale e visionaria è al contrario la sua installazione all’interno del percorso museale della Strozzina, intitolata Apnea, costituita da vecchie porte ritrovate nei magazzini del palazzo e appese orizzontalmente sulla volta, come a creare dei passaggi verso il cielo.

Nella prima sala della Strozzina sono proiettati due video: Borded Hula del 2000 e Dead Sea del 2005, dell’artista israeliana Sigalit Landau. Il primo può risultare disturbante, infatti esso mostra la Landau – nuda su una spiaggia davanti al Mediterraneo – che fa l’hula hoop con un cerchio di filo spinato, ferendo così il suo corpo. L’inquadratura non riprende né la testa né i piedi: è privata dunque di identità e di radici. Sebbene il video alluda al problema ben noto dei confini e del conseguente conflitto israelo-palestinese, è per noi un video masochistico. Crediamo che l’arte debba sì scuotere le coscienze, ma attraverso una spinta propositiva e consolatoria, e che non debba lasciarsi straziare dal dolore e dai drammi della vita. L’arte dovrebbe difatti reagire, e dischiuderci la speranza e la forza di lottare contro il pessimismo causato dalla situazione contingente.

L’altro video è visivamente di grande fascino, nonostante i contenuti siano criptici: una spirale di cocomeri, legati l’uno all’altro come una collana, galleggiano sul mar morto, e aggrappata ad essa vi è la Landau stessa, anche qui nuda. Questa curiosa spirale viene lentamente srotolata fino a che l’ultimo cocomero, slegato dagli altri e quindi isolato, sprofonda nel mar morto.

Seguono poi le foto dell’artista sudafricana Jo Ractliffe che mostrano una landa arida, ove si scorgono però resti di trincee e di carri armati: dunque immagini di luoghi che parlano di guerre ormai passate. Tali foto in bianco e nero sono state scattate infatti in zone della Namibia dove si svolse un conflitto armato tra anni ’60 e ’70; immagini che parlano di un tempo sospeso dopo la guerra, e altre ancora che mostrano bellissimi scorci naturalistici baciati dal sole, come a voler trasmettere allora un desiderio di riscatto e di pace.

In una sala interdetta ai minori di 14 anni sono collocati 6 schermi variamente disposti, che proiettano i video dell’irlandese Richard Mosse. Sono filmati girati in Congo nel corso di 6 anni, e la loro peculiarità è che, a causa della pellicola aerochrome impiegata, il verde vira verso i suoi complementari, per cui nel video dominano con forza il rosa, il violetto e il fucsia. Molte scene mostrano momenti impressionanti e terribili: guerriglieri, teschi, addirittura un cadavere, e un’altra scena è ambientata in una baraccopoli dove regna la miseria. Tuttavia i colori piacevoli del video sembrano creare una scissione paradossale, un cortocircuito: la maschera estetica dell’aspetto cromatico crea una certa suggestione, ma le scene mostrate sono incentrate sulla guerra, la morte e la povertà. Riteniamo che questa ideazione sia ingiusta e poco rispettosa. L’arte è una cosa diversa dalla documentazione di taglio documentaristico, e soprattutto essa non può esistere solo come dimensione estetizzante e di cura figurativa, a scapito del contenuto. La vera arte è quella che solleva l’uomo dai fardelli del dolore, e che lo raffigura nella sua dignità e integrità, tenendo conto dell’unione tra la dimensione formale e la profondità contenutistica.

Nascondere il terrore con una patina di falsa bellezza va contro l’etica artistica.

Conclusioni finali.

Visitare le mostre organizzate dalla Strozzina è sempre utile, in quanto documentano importanti filoni, proponendo spesso artisti di alto livello, soprattutto esponenti della video art – si rammenti a proposito il lavoro della Beecroft nella precedente mostra “Un’idea di bellezza” Link ad Articolo.

L’analisi delle opere esposte in questo centro culturale di prestigio è strumentale alla nostra critica militante, e alla comprensione dei fenomeni dell’arte contemporanea, giacché cerchiamo di discernere un problema essenziale di questo tipo di arte che ci preme studiare e risolvere: una visione nichilista e negativa dell’uomo. Questa tendenza è divenuta quasi d’obbligo, un marchio del contemporaneo in senso ideologico-programmatico. Ignoriamo quando tutto ciò verrà superato. Pensiamo inoltre che debba essere superato anche il concetto-cliché di un’arte come specchio della società, dal momento che presupporrebbe un’arte come passiva e inerme registratrice della realtà.

La nostra indagine, che possiamo definire filosofica, è in generale una critica alla società contemporanea, e ha come supposto ideale che l’arte debba essere lo spiraglio per uscire da questa crisi e l’ausilio per ricercare nuovi valori, nuove certezze, e che debba essere la consolazione dell’uomo occidentale di oggi, prigioniero di una società ebbra di artificiosità, di superficialità, di materialismo…. Una società dell’abisso.

«La bellezza salverà il mondo»

Fedor Dostoevskij

 

 

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