Breve riflessione sulla moda dei teschi e sull’arte di oggi in generale.

I teschi hanno invaso la fantasia di borse, foulard, scarpe, bracciali, e di oggetti di design, diffondendosi come un’epidemia, secondo la psicotica logica della moda.

Crediamo che tale fenomeno sia riconducibile al successo di una celebre opera di Damien Hirst: for the love of God, il teschio di un uomo del ‘700 tempestato di diamanti, realizzato nel 2007 ed esposto a Palazzo Vecchio tra il 2010 e l’anno successivo. Sebbene questa mania si riagganci naturalmente anche a precedenti tendenze dark, e al di là dei gadget del periodo di Halloween, la trovata dell’artista inglese è stata cruciale nel sottrarre il teschio all’immaginario splatter e gotico tout court – in cui questo soggetto ha sempre goduto di un grande successo come prodotto commerciale –, per assorbirlo così nelle figurazioni della moda e del design, dandogli però un’intonazione più “elegante”.
Questo evento è alquanto emblematico della natura economica e commerciale dell’arte contemporanea, sottomessa ormai ai meccanismi del mercato, della pubblicità e delle mode. Molti (tendenti alla mera constatazione) direbbero: “niente di strano, si tratta di una prassi conclamata”. Ma è giusto?
I prodromi di questo processo risalgono già alla Pop Art degli anni Sessanta, ma solo ora se n’è è raggiunto l’acme, per cui appare più che evidente l’allontanamento e il tradimento di quello che è stata per secoli l’idea dell’arte e, inoltre, dell’ideologia dell’arte delle avanguardie di cento anni fa, che teoricamente costituirono una rottura verso tutte le convenzioni.

Facciamo un salto nel tempo. Il teschio è soggetto nell’arte di diverse culture del passato, ad esempio è molto ricorrente nella pittura del Seicento europeo: l’iconografia dell’Et in Arcadia ego incarnava infatti un profondo concetto legato all’inconsistenza della vanitas, alla fragilità e alla transitorietà dell’esistenza umana. Lo scheletro raffigurato da grandi artisti, come Masaccio, Bruegel e Bernini, costituiva un monito morale ed era inserito in un discorso che aveva come fine una riflessione sull’uomo e sul suo destino.

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Philippe de Champaigne, Vanitas con tulipano, teschio e clessidra, 1671, Musée de Tessé di Le Mans, in Francia, e il particolare di uno stivaletto venduto al mercato delle Cascine, 2013, Firenze.

Oggi invece il teschio viene sfoggiato su sciarpette comprate da H&M o si trova su borsette e stivaletti nelle bancarelle del mercato delle Cascine. Un teschio desemantizzato, un simbolo di morte sradicato dal suo contesto iconologico, dalle sue implicazioni concettuali e tramutato in un’icona, in un feticcio da sbattere sulle t-shirt, in un marchio.
Se è vero che le tendenze del Post Human, negli anni ’90 e ancora oggi, hanno squadernato la morte e l’orrore, come sintomo di una “malattia” della società occidentale, bisogna però segnalare che alcuni casi sembrano poco interessati a dir davvero qualcosa, ma che siano invece stati creati a tavolino per far molto rumore e per vender tanto. Tali immagini e forme appaiono anche assai analoghe a quelle dei film del genere horror, e ciò è spia, dunque, di un appropriarsi dell’arte contemporanea di tecniche, tattiche e soluzioni per fini esclusivamente economici: scioccare, attirare e vendere.

La questione non è che la morte debba essere un tabù, il problema è che l’arte non dovrebbe piegarsi alle logiche e agli schemi della moda e del mercato, fornendo in modo accomodante, come un serbatoio, immagini da sfruttare commercialmente fino alla banalizzazione.
Siamo di fronte all’apogeo del capitalismo dell’arte: l’arte come prodotto da vendere a tutti i costi. Scrivere dell’apoteosi della sua mercificazione non è né retorico né ozioso, ma vuol dire esserne preoccupati e attuare una lucida critica.
Nella dimensione artistica non possiamo accontentarci dello shock, del curioso o dell’assurdo, per questo ci basta già la realtà in cui siamo immersi (vedi la situazione italiana).
L’arte non dovrebbe farci vivere un’esperienza più intensa, più alta, più umana, più liberatrice rispetto a un’effimera sensazione di stupore o di spiazzamento?
Quotidianamente incontriamo impressa su articoli d’abbigliamento, accessori e vari oggetti la maschera della morte, l’immagine della disincarnazione dell’umano, il nucleo senza vita della vita.
Una moda destinata a passare tra breve, e che lascerà il tempo che trova, come la sorte dell’arte contemporanea: essa è diventata successione di transeunti correnti che scoppiano per poi esaurirsi per sempre. La vera bellezza, invece, è quella fuori dal tempo, che vince sull’oblio e attraversa i secoli.

La morte è diventata prodotto kitsch, il kitsch si è impadronito dell’arte, e l’arte di oggi è tramutata in qualcosa che è tutto fuorché arte.

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