C’è del marcio in Danimarca? Niente affatto, dimentichiamo l’Amleto, perché quello di cui stiamo per parlare dovrebbe essere il modello del mondo civilizzato e globalizzato. Flexicurity: una parola da tenere a mente e che dovrebbe essere familiare in tutti i paesi avanzati. Abbiamo sentito spesso parlare di flessibilità, ed infatti il governo Renzi, ad esempio, ha lavorato molto per rendere i contratti di lavoro più flessibili. Ma da dove viene questa strategia, ed ha senso rendere il lavoro più precario? Alla seconda domanda c’è una sola risposta: dipende. Le riforme nel campo del lavoro, se vanno in questa direzione, hanno bisogno di tutta una serie di interventi che non possono limitarsi a rendere più facile assumere e licenziare. Secondo un’indagine dell’Istituto Piepoli, commissionata dal ministero del Lavoro nel 2007, l’87% dei giovani tra i 18 e i 34 anni non conosceva il significato di “flexicurity”. La parola nasce unendo l’aggettivo “flexible” e il sostantivo “security”. Quindi flessibilità e sicurezza. Il caso della Danimarca è il più adatto a chiarificare il concetto, contesto definito come “triangolo d’oro della flexicurity”. Il sistema è basato su tre principi:

  1. Flesibilità: ridurre la sicurezza del posto di lavoro, quindi elevata flessibilità esterna e  favorire la sicurezza dell’occupazione, aumentare cioè le possibilità di trovare una nuova occupazione. In sintesi: assunzioni e licenziamenti più facili, possibilità elevate di nuove opportunità lavorative, minori periodi di inattività con conseguente minor rischio di pesare sul welfare.
  2. Elevati investimenti sulle politiche attive del lavoro: quindi interventi massicci a livello individuale, attività di formazione continua,  e incentivi alle assunzioni. Questo ha un impatto importante sui tempi per la ricerca di un nuovo lavoro, riducendoli drasticamente.
  3. Elevati sussidi di disoccupazione: offrono una sicurezza economica nel periodo di inattività del lavoratore.

Il modello è molto simile in altri paesi del nord Europa, come la Svezia, e più in generale a causa della crisi ha subito alcune modifiche per motivi di sostenibilità, ma l’impianto resta lo stesso. E’ un modello che in un mondo globalizzato dovrebbe essere in teoria perseguito dalle economie avanzate. In effetti è un piano che ha condizionato il percorso di gran parte dei paesi europei. Ma fino a che punto? Limitandoci semplicemente al caso italiano possiamo notare come si sia effettivamente avviata una riforma del mercato del lavoro, rimasta a metà: aumento della flessibilizzazione, ma mancano i punti 2 e 3 illustrati sopra. Quindi si è reso precario il mercato del lavoro senza mai investire in politiche attive, ma attivando anzi incentivi per le assunzioni soltanto per alcune categorie, determinando un effetto molto negativo, paradossalmente di discriminazione di intere fasce di lavoratori.

Quale direzione intraprenderanno i futuri governi per risolvere la situazione?

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