Alea iacta est. Renzi sarà “finalmente” il Presidente del Consiglio. Sono passati 14 mesi da quando l’attuale segretario del Partito Democratico ammetteva la sconfitta contro l’allora vittorioso Bersani. Una scalata ai vertici della politica fulminante. Cinque anni fa il giovane rignanese era presidente della provincia fiorentina. Poi la vittoria sorprendente nella corsa interna a Palazzo Vecchio e l’avvio del cantiere mediatico da moderno manuale di marketing politico-elettorale alla conquista della ribalta nazionale. Infine 14 mesi che sembrano due ere politiche. La sconfitta alle primarie contro Bersani, le politiche di febbraio, l’investitura plebiscitaria alle primarie dello scorso dicembre e l’entrata in gamba tesa a Palazzo Chigi.
Fiumi di inchiostro sono stati scritti sull’opportunità politica di forzare i tempi e sostituire Letta nella staffetta stile vecchia Repubblica. Rischio di bruciarsi assumendosi responsabilità di governo? Pericolo di logorarsi nell’attesa di un futuro migliore, aspettando “quel meglio che deve ancora venire” come recitava uno degli slogan di Matteo?
Partiamo da un punto fermo: la sfrenata ambizione di Renzi e la straordinaria abilità comunicativa che ha fatto tesoro della lezione di 20 anni di telecrazia berlusconiana. Le argomentazioni più razionali sulla strategia del segretario PD non lasciano dubbi. Si brucerà assumendosi delle responsabilità di governo laddove tutti hanno fallito? Il rischio c’è. Si sarebbe logorato restando dietro le quinte e bacchettando Enrico Letta (#Enricostaisereno!)? Probabilmente pure. In ogni caso non sarebbe stato “da Renzi” che si autodefinisce uomo del “fare”, oltre la caricatura satirica di Crozza.
Sicuramente l’uomo di Palazzo Vecchio ha forzato uno stallo destinato a protrarsi nell’agonia di un governo sempre più in crisi e indebolito. Renzi si è assunto la responsabilità di tirare un calcio di rigore, un modo facile per arrivare alla meta, ma una grande responsabilità se si tratta di quello decisivo. In gioco c’è “anche” la sorte dell’Italia.
Ora però sorge un dubbio. Come realizzare le riforme e soprattutto durare fino a fine legislatura? Il governo dimissionario solo nel mese di febbraio doveva superare una sessione di esami da far impallidire il miglior studente universitario: il voto sulla legge elettorale alla Camera slittato al 18 febbraio, la conversione del decreto Svuota Carceri che scade il 21 febbraio, l’altra scadenza sul decreto che interveniva sul finanziamento ai partiti e il salva-Roma Bis previsto per il 28 febbraio. Materie scottanti che appesantiscono il testimone della staffetta dei “fratelli coltelli” e che dovranno essere affrontate con coraggio ma con la stessa maggioranza e gli stessi equilibri.
Esatto, la stessa maggioranza. L’Italia sembra l’eterno ritorno dell’uguale. Un film già visto. Tre governi consecutivi non “scelti” dal popolo ma designati nel Palazzo, quel “Palazzo Vecchio” con il quale titola il Manifesto; gli stessi interpreti e le larghe intese; gli stessi equilibri e le stesse divisioni che hanno logorato il governo Monti e quello di “Joe Condor” Letta. Il neo premier dichiara di voler durare sino al 2018, ma come realizzare le riforme di cui il paese ha bisogno con questa maggioranza?
L’ingresso di alcuni parlamentari di SEL e dissidenti del M5S sembra un’ipotesi al momento fantascientifica. Restano invece Scelta Civica e l’NCD di Alfano condannati all’estinzione qualora si andasse a votare. Quest’ultimo esprime un sì condizionato e gioca tutte le sue carte da una posizione di vantaggio strategico. Sono questi i partner di governo con i quali riformare la giustizia, aggredire l’evasione fiscale e l’economia sommersa, ridurre le diseguaglianze economiche di un paese quasi sudamericano, abolire le province, snellire la burocrazia, difendere il lavoratori italiani e ridurre il cuneo fiscale, rilanciare la scuola, la formazione e la ricerca e dare un futuro ai giovani? Sono loro gli obiettori di coscienza con i quali dialogare sui diritti civili?
E Firenze?
I mesi convulsi del Giglio li seguiremo da vicino. Intanto la città, vetrina e trampolino di lancio di Renzi, rimane senza condottiero alla vigilia delle elezioni alle quali sino a qualche giorno fa il machiavellico ex-sindaco dichiarava di partecipare. Chi siederà sullo scranno del Salone dei Cinquecento? Mentre a destra prosegue il letargo, nel PD impazza uno schizofrenico toto-candidati che si confonde con il toto-ministri. Dario Nardella, renziano di ferro, già vicesindaco nonché mattatore televisivo, potrebbe essere nominato vice sin da subito; Eugenio Giani, presidente del Consiglio Comunale e consigliere regionale promette fair play nella competizione interna e si candida nella corsa a Palazzo Vecchio e poi c’è l’outsider Simone Gheri, da 10 anni sindaco di Scandicci. Intanto i fiorentini sono concentrati su Roma, dove si giocherà la finale di Coppa Italia.

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