I miei coetanei sono angosciati e rancorosi: la loro musica preferita non va più come una volta. In giro la senti di rado, sparisce dalle classifiche e dalle playlist, le chitarre elettriche restano invendute nei negozi; per strada risuonano voci filtrate in quello strumento di morte cerebrale che è l’autotune e canzoni create al computer, dove spesso non c’è – orrore – nemmeno uno strumento che sia stato fisicamente suonato. L’impero del cattivo gusto avanza inesorabile e dovunque è un fiorire di musica senza tiro, senza adrenalina, spesso senza neanche la musica. Da qui il malanimo della mia generazione.

Amici, state sbagliando tutto: dovreste gioire. Il rock non è fatto per riempire gli stadi, frantumare i record di vendite, autocelebrarsi con stanche e penose repliche di sé stesso. Per lungo tempo abbiamo creduto che fosse così, ma seguendo quell’ideale il rock si è allontanato dai reali bisogni della gente, un po’ come la sinistra in tutto il mondo occidentale (negli anni ’90 la Seattle generation ha provato a metterci in guardia, ma stupidamente li abbiamo trattati da rockstar, sepolti sotto un cumulo di celebrazioni stantie e poi dimenticati). La forza politica in ascesa è l’hip hop, che con la sua corte di figli e alleati è diventata egemone e si prepara a lunghi anni di democristiano dominio. E poi ci sono l’elettronica in tutte le sue forme, il pop patinato, i ritmi latini, e tutti loro si abbandonando ad accoppiamenti contro natura dando vita a nuovi ibridi mostruosi. Lo spazio pubblico del rock è sempre più angusto, e continuerà a ridursi.

La prospettiva vi spaventa? Invece dovreste essere entusiasti. Lo strano periodo di rivolgimenti in cui viviamo vi concede un’occasione unica: tornare all’opposizione come una cocciuta schiera di baluardi schierata contro il gusto comune, contro la scialba maggioranza assuefatta ai flow scadenti, ai brani misurati in bpm, alle produzioni plastificate fatte per essere ascoltate con il telefono e un altoparlante bluetooth da cinque euro.

Provate a vederlo come un ritorno alle origini, ai tempi in cui il rock era una provocazione, un oltraggio al decoro e al vivere civile. Ovviamente quei tempi sono finiti e non torneranno, e d’altronde non si vede perché dovremmo sperare di vivere la ripetizione di un’epoca passata. Considerate però la preziosa opportunità di tornare ad essere un po’ più simili a come eravamo, quando ascoltavamo musica che la maggior parte delle persone considerava rumore e per questo ci sentivamo benedetti, e speciali.

La mia personale esperienza è quella di un figlio della provincia del sud Italia nato a metà degli anni ’80. Ho vissuto l’iniziazione al rock come un’onda potentissima e inarrestabile, la scoperta di un mondo nuovo ed eccitante, ma immagino che visto da fuori fosse un teatrino derivativo e passatista: quasi tutte le band che ascoltavo erano sciolte da tempo e in alcuni casi avevano già fatto una o più reunion; il Seattle Sound si era spento da anni, i vecchi monumenti del rock dei decenni precedenti occupavano ad oltranza le classifiche di vendita e già si vedevano all’orizzonte i primi segni della vittoria dell’elettronico sull’elettrico, del digitale sull’analogico. Ascoltare musica rock in un’epoca simile poteva sembrare trasgressivo solo a dei sedicenni con poca cognizione del mondo. Tutto vero.

Però è anche vero che al liceo, quando nei corridoi si improvvisavano i concertini acustici durante le occupazioni e le assemblee, gli sguardi sprezzanti delle ragazze che andavano in discoteca con i tacchi alti li ho conosciuti, eccome. Forse era un teatrino passatista, ma c’era ancora chi per quella musica ti giudicava, forse aggrappandosi a certe vecchie categorie ereditate dalla generazione precedente, e quegli sguardi aprivano ferite tremende, certo che sì, ma ti lasciavano anche qualcosa di diverso: un retrogusto acido di fierezza, l’euforia nervosa del sentirsi diversi. Quel genere di dolori di cui poi ti convinci che ti abbiano insegnato a stare al mondo.

Sarà impossibile, in questi tempi di costante ricerca dell’approvazione altrui e di sdoganamento sistematico e acritico di qualunque cosa, provare ancora quel piacere? Non lo so. Quello che so – oggi che ascolto tanta musica diversa senza badare al genere, e anzi trovo che il “genere musicale” sia un concetto obsoleto e poco sensato – è che per me il rock è un modo di suonare e di ascoltare la musica, di essere ruvidi e ipersensibili insieme, e che si addice di più ad una saletta foderata con i cartoni delle uova che ad un palcoscenico maestoso. Non perché su quel palcoscenico non si possa suonare dell’ottima musica rock, e infatti se n’è suonata e se ne suona ancora tanta: più semplicemente, è giusto riconoscere che ogni cosa ha il suo posto ideale, quello dove puoi distillarne l’essenza nella forma più pura. E il nostro posto, cari rocker, non è sotto le luci della ribalta davanti a migliaia di spettatori paganti e adoranti, non è in cima alle classifiche, non è nel tepore accogliente del gusto comune e delle radio generaliste: vedrete che è un attimo, riscoprire il piacere di essere testarda, sdrucita forza di opposizione.

[in copertina: Neil Young]

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Nato nel 1984, vive a Sant'Antioco (Sardegna sud-occidentale). Bibliotecario, scrittore e redattore; nel 2017 ha vinto la VI edizione del premio letterario RAI "La Giara"; ha pubblicato i romanzi "Il Grande Erik" (Rai Eri, 2018) e "Le case del sonno" (Edizioni La Gru, 2019), più la raccolta di racconti "Storie dei padri" (2019, autopubblicazione) e il racconto breve "Il giardino" (Libero Marzetto Editore, 2021). Ama la fantascienza distopica, il garage rock, i fumetti.

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