Tempo fa, in un’intervista ai Verdena, lessi la seguente dichiarazione di Luca Ferrari: «Noi ci proviamo sempre, a scrivere la canzone pop perfetta. Ma abbiamo qualcosa di marcio dentro che ce lo impedisce». Prima di scrivere questo pezzo ho cercato l’intervista in rete e non l’ho trovata. Che l’abbia letta davvero o che me la sia inventata, funziona comunque per introdurre il tema, che è appunto la canzone pop “perfetta”: se esiste, come è fatta, quali sono gli ingredienti per cucinarla.

Ricordo che anni fa il concetto era più ricorrente di oggi: nelle recensioni, nelle monografie, sulle riviste musicali. Non era un tema in sé, ma piuttosto faceva parte di quel repertorio di termini usati da chi alla musica mette voti e stellette – come paragone, come riferimento, eccetera. Forse la sensibilità è cambiata e della perfezione di una canzone, qualunque cosa significhi, ci si preoccupa molto meno; forse è solo che una volta leggevo un sacco di recensioni, monografie e riviste, e oggi non più.

Mi va di scriverne senza avere un valido motivo per farlo, magari è solo il gusto di mettere su una playlist da far girare nell’autoradio sulla strada per il mare. Il problema, semmai, è come parlarne. Affrontare la questione in termini di teoria musicale, intervalli, ritmi? Sono troppo ignorante. Parlare di contesto storico, cultura di massa, gusto collettivo? Anche qui penso di non avere gli strumenti per esprimermi con cognizione di causa – e poi dai, è luglio, che palle.

Seguo allora l’unica pista su cui sono sicuro di non perdermi: il gusto personale, il juke-box illimitato dell’immaginazione e del ricordo. La canzone pop perfetta è quella che ti entra in testa senza riguardo per la tua volontà e i tuoi gusti musicali, che affiora nei ricordi dopo anni di oblio e finisci per riascoltarla venti volte in una settimana. Decide lei se lasciarti in pace o se perseguitarti, e in entrambi i casi non ne avrai mai abbastanza – di lei, e delle sue spire.

Mad About You (Hooverphonic, 2000)

Gioco subito a carte scoperte: per me la canzone pop perfetta è questa. Già. Made in Belgium, chi l’avrebbe detto. A scaletta completata, mi sono accorto di aver scelto diversi brani scritti da artisti di cui mi piace solo un pezzo – e mi piace in quanto è la canzone pop perfetta o quasi, quindi a che serve ascoltare il resto? Cos’altro hanno fatto di valido gli Hooverphonic? Non ne ho idea, ma Mad About You è sublime e sempreverde, va bene in ogni stagione, con qualsiasi umore. E ha ben due videoclip meravigliosi (per un classe ’84 il videoclip figo vale un sacco di punti, se sei una aspirante reginetta tra le canzoni pop).

Stormi (Iosonouncane, 2015)

Unica parentesi tricolore in una playlist che altrimenti sarebbe rigorosamente esterofila (perché? Boh, è uscita così). Lo spirito inquieto di Lucio Battisti scorre come un fiume carsico nella musica italiana, e a volte ci dimentichiamo della sua importanza: ogni tanto però riaffiora sotto forma di sorgenti, laghi placidi, torrenti agitati. Stormi è un’esplosione di anime latine e di canzoni della terra, uno zampillo prepotente che sparge ovunque la sua acqua profumata di estate, di salsedine, di macchia mediterranea stesa al sole.

Velvet Goldmine (David Bowie, 1975)

Una delle sue canzoni più affascinanti, l’artista più affascinante del secolo scorso l’ha scartata. È uscita come outtake di Ziggy Stardust, dove personalmente ritengo che abbiano trovato spazio diversi brani inferiori a questo. La lascivia di Ziggy, in altri momenti del disco più contenuta, qui è esibita con una sfacciataggine unica e anche con un mood giocoso che – in effetti bisogna dargli un po’ di ragione – forse avrebbe stonato dentro un album così apocalittico.

Fallin’ (Alicia Keys, 2001)

Avevo diciassette anni e anche MTV Italia era giovane. In estate la guardavo per ore, per lo più a caccia di chitarre elettriche ben temperate e delle mie VJ preferite. Poi è arrivata lei, con la sua voce pazzesca e la sua bellezza soffocante, ed è stato un piccolo gioioso trauma: l’incastro tra i beat e il pianoforte, l’atmosfera gospel e l’attitudine hip hop, che vent’anni fa per il pubblico italiano doveva suonare meno familiare di adesso e che per me di certo corrispondeva allo sbarco degli alieni. Di Alicia Keys conosco solo qualche canzone sparsa: ogni volta che riascolto Fallin’, però, finisco in balia di quel tre quarti assassino, e allora lovin’ you, darlin’, makes me so confused.

Anna Molly (Incubus, 2006)

Non che io sia un fan degli Incubus. Li ascoltavo all’università: bel suono, bravi musicisti e tutto quanto, ma mai amati. A questo disco credo di non esserci neppure arrivato, dopo Morning View li ho seguiti poco. In teoria la loro canzone pop perfetta sarebbe Drive, altro singolo spacca-classifiche del fertile periodo a cavallo tra vecchio e nuovo millennio. Anna Molly non è migliore di Drive ma ha qualche carta in più da giocare: il ritmo duro e incalzante, le note squillanti del marxofono, il cambio di passo tra strofa e ritornello la rendono, in qualche modo, sempre fresca. Per me, tra le loro canzoni, è quella che è invecchiata meglio.

Still Loving You (Scorpions, 1984)

L’ho scoperta (per modo di dire) in un modo che è un po’ un classico, per i nati negli ‘80: avevo una musicassetta non originale, appartenuta forse ad uno zio, e la ascoltavo regolarmente. Sopra c’era un disco dei Bad Religion, o dei Misfits. Dopo l’ultima traccia del lato A c’erano dieci secondi di una ballatona anni ’80, che non c’entrava nulla con il resto della cassetta e che si interrompeva subito. Non solo era stata coperta dalla registrazione successiva, era anche spezzata prima del finale. Anni dopo, nell’era di internet e della fine di tutti i misteri, sono riuscito ad ascoltarla per intero e ho scoperto che è della stessa band autrice di una delle canzoni che più detesto al mondo, cioè Wind Of Change. Questo perché i misteri sono dentro di noi.

Don’t speak (No Doubt, 1995)

Va bene, con gli Hooverphonic stavo bluffando (un po’). Se la parola “perfezione” può essere spesa una volta sola, la mia scelta è questa. Mi tocca parlare ancora di videoclip: è uno di quei casi in cui faccio fatica a slegare la musica dalle immagini che la accompagnano, e il video di Don’t Speak è parte integrante di una canzone irripetibile, il momento più alto di una band che da lì in poi non ne ha più azzeccata una. Non ci sarà mai più una diva come la Gwen Stefani anni ‘90, a piedi nudi e con le forcine tra i capelli, e non ci sarà mai più una band capace di raccontarsi in modo così schietto senza rinunciare alla propria vocazione pop. E poi l’assolo flamenco di Tom Dumont, il bouquet, le linee vocali che nel finale si rincorrono in una spirale di malinconia infinita; la regia elegantissima di Sophie Muller, l’arancia infestata dai vermi, la splendida sezione ritmica di Young e Kanal, il sole che dalla strada si riversa nel garage dove Gwen e compagni stanno suonando, come una madeleine fatta di luce. Credo che ad una canzone da classifica non si possa proprio chiedere di più.

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