Rise up Comus, sing your song / Bewitch the maiden, the day is long
 / Cast your spell, sweet music crack / Her virtuous shell
(Song to Comus)

Roger Wootton e Glenn Goring sono due diciassettenni che frequentano il Ravensbourne College of Art di Bromley, nella contea del Kent. Suonano la chitarra e condividono due passioni musicali: il duo composto da John Renbourn e Bert Jansch (che di lì a poco fonderanno i mitici Pentangle) e, sull’altra sponda dell’oceano, i Velvet Underground. La loro amicizia è la base per la nascita di una band di culto: i Comus. È il 1967.

Sempre al college Wootton e Goring conoscono Chris Youle, loro futuro manager, e il violinista Colin Pearson. I quattro vanno a vivere insieme in una casa di Beckenham. Reclutano il bassista Andy Hellaby e la cantante-percussionista Bobbie Watson, appena sedicenne. La formazione viene completata da Rob Young, pianista che si adatta ad imparare flauto, oboe e percussioni.

Nel 1970 scrivono parte della musica per il film Permissive del regista canadese Lindsay Shonteff (negli anni successivi collaboreranno ad altri tre suoi film). Da tempo la band sta facendo la gavetta nei dintorni di Londra ed è richiestissima nel circuito dei college. Nello stesso anno arriva la grande occasione: aprire un concerto di David Bowie alla Purcell Room (il gruppo frequentava assiduamente l’Arts Lab di Beckenham, fondato dal futuro Duca Bianco). La visibilità dei Comus aumenta di colpo e Youle procura loro un contratto con la Pye. Tutto è pronto per la pubblicazione di uno degli album più coraggiosi e inclassificabili della storia: “First Utterance”, “il primo discorso”. Prima di raccontare il disco bisogna fare una premessa, perché mai come in questo caso il nome di una band ne preannuncia gli umori e i suoni.

Nell’antica Grecia il “kómos” era un corteo o manifestazione pubblica dalla forte connotazione erotica, di origine religiosa (legato a culti come quello di Dioniso e alle Falloforie), ma presente in molti contesti sociali: matrimoni, banchetti e simposi. I partecipanti (komastài) si inebriavano di alcool e musica, liberandosi dei freni inibitori e di ogni senso del pudore. La letteratura greca contiene diverse testimonianze del rituale (la più famosa è il Simposio di Platone, in cui Alcibiade irrompe ubriaco ad un banchetto con una corona di edera e viole sulla testa, accompagnato da un corteo di orgiastici), che nelle arti figurative della tarda antichità viene “personificato” nel semidio Comus, figlio e coppiere di Bacco e portatore del caos. È da questa figura mitologica, ripresa nel 1634 da John Milton per una sua masque, che la band prende il nome. Cosa potrà suonare gente con gusti simili? Musica da baccanale, ovviamente. Ma non c’è nessuna celebrazione, nessuna idilliaca comunione con la natura, nessuna gioia dei sensi nell’orgia musicale di First Utterance.

Il disco comincia con un giro ipnotico della viola, su cui si innestano gli altri strumenti e la voce terrorizzante di Wootton. Dopo qualche secondo il primo pensiero è: sono pazzi? Sì, lo sono. Diana è il manifesto artistico dei Comus: nelle musiche mortifere e ricche di atmosfere stranianti, a volte di stampo medievale, spesso semplicemente primitive; nei testi, espliciti e di una crudezza esasperante.

La “Diana” della canzone non è una ragazza qualsiasi ma la dea della mitologia romana, ombrosa e votata alla verginità perpetua. Qualcuno la insegue “attraverso i boschi fumanti”, travolto e reso folle dalla libidine. Lo si può immaginare come un satiro, una creatura silvana senza morale né contegno: è un maniaco, è una belva, forse è Comus in persona che corre tra gli alberi accecato dal desiderio, i passi segnati dal ritmo dei tamburi. Anche senza leggere il testo, la musica ci mostra la scena come se avvenisse davanti ai nostri occhi.

È solo l’inizio di una corsa sfrenata nella follia: la lunga e stordente The Herald smorza la tensione, mostrando la vocazione melodica del gruppo (da rimarcare la splendida parte centrale, guidata dal violino e dal flauto). Le atmosfere sono ancora lontane miglia e millenni dalla civiltà urbana, ma la crudeltà primitiva di Diana sembra superata. Invece era solo l’inizio.

Arriva la follia omicida di Drip, Drip: sorretto da chitarre acid folk taglienti e violini dissonanti, il monologo di un uomo (o si tratta ancora di Comus? Potrebbe essere il seguito di Diana) che uccide una donna, descrivendone la bellezza e la crudeltà con versi oltre il limite del morboso, per poi seppellirla in una radura. Tutto in prima persona, senza risparmio di dettagli.

Il passo successivo è Song to Comus, sublime ballata della depravazione. Stavolta non ci sono dubbi: il protagonista è il semidio (descritto come una sorta di creatura dei boschi che si può facilmente accostare al dio Pan), colmo di soddisfazione per la violenza e i soprusi che riempiono le sue giornate. Usa il potere del suo canto per ammaliare una vergine e condurla alla grotta in cui vive, nell’oscurità del bosco: lì abusa di lei, mentre “il suo terrore urla, tagliando l’aria, ma nessuno la sente laggiù”.

Nessuna difesa della virtù, nessun dubbio morale, c’è solo il piacere di chi usa e il dolore senza consolazione di chi viene usato. Questi ruoli opposti sono splendidamente interpretati dai due cantanti: Roger Wootton è perverso e maniacale, completamente calato nella parte, posseduto, verrebbe da dire. Ringhia, rantola e geme, la mente e la voce devastate dai sensi. Gli risponde la voce incantevole di Bobbie Watson: una menade invasata, un’autentica baccante partecipe e inerme nella furia del kòmos: il suo timbro trasmette una femminilità travolgente, selvatica e fragile al tempo stesso. Paganesimo amorale allo stato puro.comus-first-utteranceThe Bite, uno dei pezzi più movimentati del disco, descrive con versi agghiaccianti la cattura e l’esecuzione di “un cristiano”, appeso per il collo nel mattino “nebbioso, triste e freddo”. Segue il breve intermezzo strumentale Bitten, che conduce al brano conclusivo: The Prisoner, che a dispetto delle melodie bucoliche che la introducono, è la drammatica memoria di un uomo rinchiuso in manicomio, sottoposto a trattamenti brutali e ridotto a una creatura senza coscienza né ricordi, colma solo del desiderio di fuggire. Il tema è sempre quello del rapporto tra chi esercita il male e chi lo subisce, raccontato senza nessuna sfumatura sociologica: gli istinti bestiali trionfano sugli indifesi senza possibilità di riscatto, i malvagi uccidono gli innocenti. Punto.

Con un’originalità compositiva fuori dal comune i Comus, appena ventenni, dipingono un mondo atroce in cui esiste solo la sopraffazione, la vittoria dei forti sui deboli. Il baccanale folk mischia sonorità di mezzo mondo (sentori celtici e mediterranei, echi africani, fraseggi orientali: c’è davvero di tutto in questo disco) e cancella secoli di civilizzazione per riportare l’uomo alla sua condizione originaria di animale senza legge, guidato solo dalla necessità del momento: il bisogno di fuggire per chi è prigioniero, il bisogno di violentare e uccidere per chi è schiavo delle proprie pulsioni. Ed eccolo lì, Comus, immortalato nella copertina (realizzata da Wootton con la penna a sfera): una figura maschile contorta, sofferente e senza pace, le ossa sporgenti che sembrano voler fuggire via dal corpo.

Il disco uscì nel febbraio 1971 e, come si può immaginare, fu un fiasco. Forse per sfortuna, forse perché troppo estremo, troppo cattivo; di certo non facile da vendere (erano gli anni del grande revival folk britannico, ma in una chiave molto meno minacciosa: le ballate struggenti dei “Fairport Convention” e le geniali invenzioni dei “Pentangle” sono gli esempi più luminosi di quel movimento). I Comus cominciano a perdere pezzi. Se ne va Youle, assunto dalla Polydor tedesca (lascia il gruppo dopo aver ottenuto il contratto per un secondo progetto, The Maalgard Suite, che resterà incompiuto).

Tre anni dopo sono rimasti solo Wootton, Hellaby e Watson, che con altri musicisti licenziano un nuovo disco, “A Keep From Crying”. L’incanto però si è spezzato: ci sono alcune felici intuizioni, una svolta verso suoni più moderni ed elettronici, ma poco o nulla della folle ispirazione che aveva partorito l’esordio: sono diventati una normale progressive band. Neanche così riusciranno a raggiungere la fama.

I Comus cadono nell’oblio, ma restano vivi nel ricordo di un pugno di appassionati. A favorire la loro riscoperta sarà soprattutto l’ambiente del metal più duro, che nei testi sanguinari di Wootton e compagni riconosce le proprie radici estetiche: nel 1998 gli svedesi Opeth intitolano il loro terzo album My Arms, Your Hoarse (“Le mie braccia, il tuo carro funebre”), che è un verso di Drip, Drip; un’altra citazione si trova in Ghost Reveries del 2005 (il titolo The Baying of the Hounds è preso dal testo di Diana). Anche gli apocalittici Current 93 tributano il genio dei Comus con la cover di Diana contenuta nell’album Horsey (1997). Grazie all’avvento di internet il nome della band di Beckenham torna a circolare tra i fan e arrivano le immancabili ristampe dei vecchi album (la versione rimasterizzata di First Utterance contiene una traccia bonus all’epoca non inserita nel disco, All the Colours of Darkness), fino a quando avviene l’imprevedibile: sotto la spinta di Youle e del cantante degli Opeth Mikael Åkerfeldt il gruppo si riunisce, nella stessa formazione che aveva registrato First Utterance (con la sola eccezione di Young, sostituito dal marito di Bobbie Watson Jon Seagrott).

Quarant’anni dopo i primi concerti nei college, i Comus “debuttano” al Melloboat Festival nel marzo del 2008, accolti da un pubblico entusiasta. Nel 2012 arriva anche un nuovo album in studio, Out of the Coma, che riprende lo stile dell’esordio. La resurrezione è completata. Difficile dire cosa sarebbe accaduto se First Utterance fosse stato un successo: forse avrebbe cambiato la storia del folk, o forse no. L’unica certezza è il terrificante splendore di quel “primo discorso” che avrebbe meritato maggiore attenzione e più ascoltatori, un intero corteo di baccanti al seguito di una musica ebbra e irripetibile.

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Nato nel 1984, vive a Sant'Antioco (Sardegna sud-occidentale). Bibliotecario, scrittore e redattore; nel 2017 ha vinto la VI edizione del premio letterario RAI "La Giara"; ha pubblicato i romanzi "Il Grande Erik" (Rai Eri, 2018) e "Le case del sonno" (Edizioni La Gru, 2019), più la raccolta di racconti "Storie dei padri" (2019, autopubblicazione) e il racconto breve "Il giardino" (Libero Marzetto Editore, 2021). Ama la fantascienza distopica, il garage rock, i fumetti.

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