Quattro anni fa moriva Mark Fisher. Il suo Capitalist realism. Is there no alternative? è uno dei testi più forti che abbia letto per l’onestà con cui descrive i dogmi del capitalismo neoliberale post-sovietico in cui viviamo. Fisher riprende l’idea di Fukuyama, secondo il quale la caduta del muro di Berlino coincide con la fine della storia: non c’è, per ora, un’alternativa ideologica capace di contrastare quella pervasive atmosphere che si è impossessata della nostra carne e della nostra anima, fino a farci credere che “è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo”. Sembra catastrofico, ma per avere nozione della perdita di controllo sulla realtà e della crisi sistemica (politica, ambientale, sociale, psicologica) in atto non dobbiamo lanciarci in possibili previsioni sul futuro, basta semplicemente rileggere la parte finale de Il secolo breve di Hobsbawm, non a caso intitolata “la frana”.

Ciononostante sappiamo che per imporre un sistema sociale, qualunque esso sia, è sufficiente presentarlo come un fatto naturale e non un valore o un’ideologia: così si è imposto il neoliberismo negli ultimi trent’anni con la sua business ontology, secondo la quale è ovvio che tutto (istruzione, sanità, spazi naturali, relazioni sociali) deve essere gestito secondo logiche aziendali.

Molto prima del covid, K-Punk (epiteto da blogger di Fisher) parlava anche della pandemia mentale, che non può essere compresa se ci ostiniamo a considerarla un fatto privato, individuale e non sociale; come tutto il resto d’altra parte. Fisher ci invita a studiare i livelli crescenti di disagio e patologie delle capitalist societies oltre l’interpretazione fallace della privatization of stress, fino ad affermare che la diffusione del malessere psicologico dimostra che il capitalismo, lungi dall’essere l’unico sistema sociale che funzioni, è intrinsecamente disfunzionale al benessere delle persone.

Un saluto, compagno Fisher. Lo “sbagliato” non sei tu, anche se hai sempre sofferto di depressione e, giustamente, non solo non te ne sei mai vergognato, ma ne hai parlato e scritto diffusamente. Già li vedo, caro Mark, i detrattori della pubblica felicità, i sostenitori dell’ossessione meritocratica promotrice di oggettive disuguaglianze mascherate eticamente, nonché della morte della conflittualità sociale – sinistra neoliberale inclusa, orfana della propria tradizione culturale socialista ed egualitaria -, del business as usual, della società della prestazione che sfuma in “disagiotopia”, criticarmi perché sto elogiando un loser, un “buono a nulla”, come tu stesso ti sei definito in un articolo (per approfondimenti Mauro Boarelli e Federico Chicchi).

In fondo, però, un punto ci accomuna nella lotta: nessuna critica ha senso se non riusciamo a concepire qualcosa di diverso dal fango in cui siamo impantanati.

I veri colpevoli non sono i “deboli”, come recita il ritornello che colpevolizza senza remore, quanto piuttosto quelli che mandano avanti questo sfruttamento, queste guerre, questa distruzione della terra, della vita, della diversità antropologica e biologica. Sono loro che alimentano quest’ideologia distruttiva, senza un minimo senso sociale, senza pudore, senza etica. L’etica, quel valore che è stato cancellato dalle nostre mappe mentali, spazzato via dal nuovo “ordine naturale delle cose”, perché «neoliberalism has sought to eliminate the very category of value in the ethical sense.» (Mark Fisher, Capitalist realism. Is there no alternative?)

Questo articolo è per te e per tutti quelli che soffrono. Tu parlavi di “volontarismo magico” e coscienza di classe in un mondo dove più la disuguaglianza cresce più il popolo desidera consumare per essere. Con il boom di vendite su Amazon durante il lockdown, il cellulare nuovo come obiettivo esistenziale e il “sogno nel cassetto” di “fare i soldi su Youtube”, il rilancio etico è compito ingrato della minoranza.

Tra una notizia e l’altra qualche opinionista dice che domina il nichilismo, ma come potrebbe essere diversamente se durante la quarantena non è stato dato nessuno spazio reale alla questione sociale, alla scuola, all’università, al sapere? Se l’unica ossessione dei nostri governanti è stata quella di riaprire i centri commerciali e far “ripartire i consumi”, lasciando inabissare i precari e qualsiasi cosa avesse a che fare con la cultura (cinema, teatri, diverse associazioni e cooperative). I luoghi della cultura sono attualmente tutti chiusi; in ambito scolastico fanno eccezione, per fortuna, alcuni gradi di istruzione come la primaria. Una buona parte delle scuole non sono state messe in condizioni di continuare a garantire la didattica in presenza, obbligando i ragazzi a ripiegare sulla DAD, per ovvie ragioni non in grado di offrire veramente il diritto all’istruzione garantito dalla Costituzione. La risposta di Priorità alla scuola e Società della cura non si è fatta attendere: “a Natale regala la scuola”, “ci si vede il 7 gennaio”; ripristiniamo la possibilità di offrire un significato oltre la logica dei consumi per i ragazzi confinati nelle proprie stanze.

In effetti quando i ragazzini del I.C. Tommaseo o del liceo Gioberti di Torino chiedono come sia possibile poter andare in profumeria e non a scuola, cosa dovremmo rispondere? Cosa ne è stato del potenziamento del corpo docenti, delle classi dimezzate e dei mezzi di trasporto per gli studenti?

I centri commerciali e il fast tourism sono ciò che il mondo aggredito dalla pandemia ha più fretta di ripristinare. La crisi ambientale e culturale scompare totalmente dai radar di chi ha i mezzi per prendere decisioni, il dibattito pubblico si arrovella su fasi pandemiche, bonus monopattini, cashback di Natale e colori delle regioni mentre l’urgenza di una rapida transizione socio-ecologica muore sotto il chiacchiericcio degli “esperti”, dei “tecnici”, dei talk show.

Le tue pagine sull’illusione della “crescita continua” per la quale anche il cambiamento climatico viene incorporato nel marketing e nella pubblicità, che inglobano il problema come “risolvibile dal mercato”, sono di una lucidità unica.

Per l’uomo neoliberale però la terra non esiste, esistono solo i soldi; tuttavia è innegabile che «the relationship between capitalism and eco-disaster is neither coincidental nor accidental: capital’s ‘need of a constantly expanding market’, its ‘growth fetish’, mean that capitalism is by its very nature opposed to any notion of sustainability» (Mark Fisher, Capitalist  realism. Is there no alternative?). È impossibile non cogliere il legame indissolubile tra capitalismo ed eco-disastro, come sarebbe ipocrita negare la “retorica green” di un sistema che in realtà fa di tutto per finire il petrolio fino all’ultima goccia e per disboscare quel che resta della foresta amazzonica per sostituirla con l’olio di palma, ma certo più subdolo è interessante è aprire gli occhi sul modo in cui il capitalismo sfrutta le stragi ambientali a proprio favore, tra le quali c’è anche quella del covid-19 chiaramente, secondo la logica del disaster capitalism di Naomi Klein.

Quale miglior momento per investimenti immobiliari redditizi se non quello della bomba che ha distrutto Beirut nel 2020 o dell’uragano Katrina che ha spazzato al suolo una parte della east coast statunitense nel 2005? Questi sono solo due esempi della shock doctrine che mi fanno pensare alla coincidenza tra “capitalismo della distruzione” e “capitalismo della disuguaglianza”, dove la mancanza di diritti sociali del mondo neoliberale incontra l’assenza di diritti ambientali, entrambi totalmente sottoposti alla logica del profitto.

Vogliamo davvero continuare a fare finta che si possa trattare la questione ecologica e il suo legame con il nostro modello di “sviluppo” e consumo, come chiaramente mostrato dalle scelte attuate durante la pandemia, con la leggerezza del jusqu’ici tout va bien (“fin qui tutto bene”)?

Neanche il Covid può farci fermare un attimo e riflettere sulla “cronaca di una morte annunciata”?

Capisco il senso di impotenza e solitudine di fronte alla distruzione del pianeta, davanti alla quale non appare strano che in molti non vedano un futuro per l’umanità (Fridays for future lotta per avere una prospettiva oltre la distruzione planetaria) e pensino quindi alla prospettiva dell’estinzione della nostra specie come un fatto plausibile e non lontano (il movimento Extinction Rebellion è nato proprio per contrastare le scelte governative e imprenditoriali che accelerano la nostra estinzione), così come si diffondono teorie del collasso per comprendere l’era finale dell’uomo sulla terra: l’antropocene.

Esistono tante politiche basilari utilissime (diminuzione dell’uso di combustibili fossili, uso di fonti rinnovabili, efficienza energetica per edifici pubblici e privati, ridimensionamento dei continui spostamenti turistici e lavorativi, aumento delle tasse per le imprese inquinanti…), ma il nodo fondamentale è quello dell’eccesso di consumi, che ci deve necessariamente portare verso alcune scelte collettive fondamentali per rendere più lieve il nostro passaggio sulla terra. In primis dovremmo considerare quest’epoca come una fase di transizione necessaria verso un mondo post-capitalista, almeno per come intendiamo questo sistema ora, nel quale la logica del profitto e dell’accumulo è limitata a favore di quella della condivisione; in tal senso appare fondamentale, accanto all’istituzione di un reddito minimo universale di cui scriverò a breve, quella di un “reddito massimo” o comunque di un tetto massimo di beni che possono essere posseduti da un singolo cittadino.

Quest’idea lega di nuovo transizione sociale ed ecologica perché, diminuendo la possibilità di accentramenti di ricchezza esorbitanti e quindi di consumi eccessivi estremamente inquinanti, offre la possibilità di redistribuire il reddito e contemporaneamente diminuire l’impatto ambientale, evitando a pochissimi individui di muoversi su uno yacht o su un jet privato, inquinando l’aria, l’acqua e la terra che sono di tutti.

Certamente queste idee di cambio paradigmatico non si possono imporre facilmente davanti alle passerelle dei politici che dicono “il covid non è un danno perché colpisce soprattutto gli anziani improduttivi”, “vaccineremo prima i lombardi perché valgono di più”, “venite in vacanza al sud perché qua il covid non c’è” oppure che bisogna far ripartire i consumi e “pazienza se qualcuno morirà” (presidente Confindustria Macerata).

Colgo l’occasione per un ennesimo accorato plauso agli “improduttivi”, agli “inessenziali” e ai “sognatori” che hanno la forza di immaginare qualcosa oltre quel che c’è, ma anche a tutti coloro che, non agendo, non fanno male agli altri, agli animali, all’ambiente. Siamo onesti: vogliamo paragonare un pensionato pacifico e “nullafacente” con un “caporale” sfruttatore, un bravo killer dell’esercito o un industriale che inquina le acque e i cieli di gente inerme?

Chiaramente no, perché secondo le logiche vigenti, l’unico valore sono i soldi e l’importante è guadagnarne di più, se poi lo si fa vendendo armi  o sventrando montagne non conta.

Caro K-Punk, il cammino è in salita, ma convertire la disaffezione individuale in rabbia politicizzata rimane l’obiettivo più importante, proprio come desideravi tu. La distopia si è realizzata, il nulla è diventato tutto, siamo immersi nel mondo post-politico che ti causava sofferenza immensa, dove regna la mancanza di fini e in pochi sanno immaginare orizzonti di significato nuovi, anche se forse la pandemia ci offre qualche possibilità di ricostruzione.

Lo “spirito del ’45” di Ken Loach appare ancora lontano. Quella è la storia di una palingenesi postbellica basata sulla forza dei diritti e sulla nazionalizzazione dei servizi strategici. Sanità, scuola e welfare state: così il Regno Unito del Labour Party di Attlee è riuscito a creare una delle democrazie più solide ed egualitarie del pianeta.

In poche parole esisteva la società e non solo gli individui.

Tale realtà è tramontata con la Thatcher (1979-1990). Da lì in poi il neoliberismo è diventato la nouvelle raison du monde (Pierre Dardot, Christian Laval): è diminuito fino quasi a scomparire lo stato sociale, la povertà è considerata uno stigma individuale e non una realtà collettiva, la maggior parte di ciò che era pubblico è stato privatizzato sotto lo slogan di “meritocrazia, risparmio, produttività, competenza, competitività”, sono sorti l’austerity e i paradisi fiscali, è aumentata la disuguaglianza sociale e fiscale (oggi una proposta di patrimoniale blandissima, nonostante il disastro della pandemia, viene accolta male dalla politica, pur sapendo che il 53% dei redditi italiani non deriva dal lavoro ma da vari profitti con cui il fisco è generosissimo e senza dimenticare che, in seguito alla crisi del ’29, pur in un momento molto più duro del 2008, il New Deal di Roosevelt, per risanare i danni della “libertà d’iniziativa individuale”, spinse l’aliquota delle imposte attorno al 90%, fino a che, nei “ruggenti anni ’80”, si abbassò al 28%).

Forse proprio questo intendevi tu nel parlare di un certo tipo di capitalismo, quello privo della controparte sovietica, dell’alternativa ideologica e concreta, delle masse lavoratrici politicizzate che si organizzavano attorno al PCI, al Parti communiste français, al Labour Party per promuovere la coscienza di classe, il senso etico, la giustizia sociale, il femminismo, il pacifismo.

Tuttavia, come dice Ken Loach, «Another world is possible and necessary».

La pandemia mostra l’emergenza di un’altra “ragione del mondo”: potrebbe quindi essere un’occasione per cambiare l’intera economia politica della nostra società in maniera più redistributiva e progressiva, ispirandosi – se non proprio al socialismo – almeno alla socialdemocrazia capace di coniugare i diritti universali “dalla culla alla morte” con il libero mercato. Thomas Piketty vede nell’epidemia una crisi utile a cambiare il sistema: egli sostiene l’importanza di una tassa patrimoniale mediante la quale finanziare un’eredità di cittadinanza per i giovani; mentre altri, in maniera analoga a quella dello studioso francese, puntano su imposte progressive, eliminazione dei paradisi fiscali, diminuzione delle “grandi opere” spesso inutili e inquinanti e riduzione delle spese militari (per le quali il governo ha annunciato in questi giorni altri 6 miliardi di euro!) per finanziare un reddito di base incondizionato.

Il reddito di base incondizionato è una formula universale, individuale e permanente che sostituirebbe il welfare dei sussidi condizionati e frammentati che hanno mostrato la loro inconsistenza in questi mesi di chiusure, costellati da una miriade di bonus a termine che non rispondono a nessuna reale esigenza strutturale, fingendo che il problema reddituale sia confinato al periodo del lockdown.

La sua forza, rispetto al “reddito di cittadinanza” e ad altre forme di sostegno alla povertà, oltre alla garanzia di una giustizia sociale minima che varca lo scandalo della stigmatizzazione dell’indigenza e che arriva a tutti aggirando il ginepraio burocratico categoriale, è che non confligge in nessuna maniera con il lavoro, che può essere svolto liberamente – o no – senza nessun problema (Philippe Van Parijs, Guy Standing, Daniel Raventós, Federico Chicchi, Roberto Ciccarelli). Va comunque riconosciuto un merito all’introduzione del “reddito di cittadinanza” che, pur con i suoi numerosi paletti, porta la dignità delle persone al centro del dibattito politico. Il maggior limite di questa formula è il legame con il lavoro che, siccome in molti casi non viene ottenuto, porta i detrattori del sussidio a definirlo un “fallimento”.

Di fatto, nella maggior parte dei casi, il “reddito di cittadinanza” funge da basic income e viene regolarmente evaso, indipendentemente dalla “prestazione lavorativa”. La rivendicazione di un reddito di base incondizionato, rispetto a quella di un salario minimo (con il quale può comunque convivere tranquillamente) ha l’onestà di guardare la realtà, nella quale, come dice Philippe Van Parjis, «il lavoro non c’è o è povero» e ancora «una società che si aspetta che le persone trovino ciò che è impossibile da trovare e li biasima per non averlo trovato può solo generare demoralizzazione, risentimento e rivolta» (Il Manifesto, 16/10/2020).

Lo scrittore Juan José Millás, in una bellissima intervista in cui parla delle assurdità del tardo-capitalismo, rincara la dose dicendo «La única solución real para el mundo que viene es la renta básica universal, porque va a haber un ejercito de gente que no va a trabajar en su vida. (…) Si queremos construir un mundo digno, la única solución es el reparto de la riqueza, porque riqueza hay para todos, lo que pasa es que está mal repartida. Por el mero hecho de nacer, uno tiene derecho a un salario que le permita llevar una vida digna» (Público, 10/07/2020).

Il sociologo Zygmunt Bauman, di fronte alla solitudine dell’uomo globale che non riesce a stare al passo con la realtà caratterizzata dalla rapida perdita di molti impieghi a causa dell’automazione del lavoro e delle delocalizzazioni (prima che arrivasse la pandemia ad accelerare questi processi), così come incapacitato ad opporsi adeguatamente alla cultura neoliberale, afferma che i passaggi delle rivendicazioni politiche sono tappe di avvicinamento ad una consapevolezza collettiva che sfocerà nello universal basic income.

Una volta che il “reddito di cittadinanza” sarà trasformato in reddito universale senza vincoli, indipendente dai means test che accertano “l’effettivo stato di indigenza” del richiedente e soprattutto dalle “politiche attive del lavoro”, sarà più semplice definirlo un “successo”, una rivoluzione positiva per il 99% dell’umanità, uno slancio di nuova fiducia verso gli altri, che valica le divisioni “categoriali” (statali contro partite iva, precari contro garantiti..), nonché verso le istituzioni, assolutamente insperato. Si tratta di un mondo nel quale l’identità e la dignità della persona, in presenza di un minimo garantito per tutti, non sono interamente subordinate alla condizione lavorativa e patrimoniale: praticamente il superamento della business ontology secondo la quale ogni aspetto della vita è aziendalizzato e finanziarizzato. Il reddito di base aiuta l’uomo ad affrancarsi un po’ dal perimetro della continua competizione, considerata giusta e sana secondo i dettami “darwinistici” delle (il)logiche neoliberiste.

Un altro beneficio immenso del basic income, come dimostrano molti test pilota, è l’effetto positivo sulla salute mentale di coloro che escono dalla paura della mancanza materiale, indipendentemente dalla propria condizione reddituale (working poor, autonomi, precari, disoccupati, inattivi..). Appare inoltre fondamentale al fine di ridurre la quantità dei cosiddetti bullshit jobs (lavori inutili, privi di senso), nonché per limitare gli spostamenti non necessari al fine di ridurre le emissioni inquinanti, così come per creare un futuro dominato dalla tecnologia avanzata che sia pacifico e non di contrasto luddistico con la realtà che si sta imponendo sempre di più (sostituzione dell’uomo con le macchine, in particolare per quanto riguarda il lavoro).

Per concludere questa breve panoramica sul reddito di base voglio considerare le obiezioni più comuni: è una misura per nullafacenti che disincentiva il lavoro e l’impegno, non è sostenibile economicamente, dare soldi ai poveri è “pericoloso”.

La prima obiezione mi porta in Lettonia, dove ho vissuto un anno, ricordandomi un discorso dal quale è poi nata un’intervista (“Generazione sovietica e generazione europea a confronto”, Cafébabel, 22/05/2017) relativa alla differenza tra il modello sociale e di welfare sovietico e quello capitalista neoliberale dell’Unione Europea.

L’intervistata descrisse il modello sovietico come positivo per quanto concerne l’assenza di differenze enormi come quella attuale tra un manager e un semplice cittadino, la mancanza di un’ansia perenne circa la possibilità di essere licenziati dall’oggi al domani, di non poter progettare il futuro con un minimo di serenità, di rimanere senza soldi e senza tutele non sapendo cosa fare. In seguito però sostenne l’idea secondo la quale, sulla base della “libertà individuale” e della “democrazia”, chi “si dà da fare”, può avere “successo”.

Devo ammettere che non ci potevo credere, mi trovavo in una piccola cittadina della Lettonia orientale al confine con la Russia, fredda e isolata, nella quale la maggior parte delle persone vive con poche centinaia di euro al mese, eppure il vento del “sogno americano” aveva soffiato fin là.

In questa sede mi limito a porre qualche domanda ai lettori.

Si può parlare di “libertà individuale” con 300 euro al mese?

Credete veramente che la “meritocrazia” sia democratica?

Perché quando parliamo di Unione Sovietica si grida subito allo scandalo dell’ideologia e quando parliamo di capitalismo neoliberale lo trattiamo come fosse un dato di natura?

Sinceramente pensate che un reddito di sussistenza renda il mondo un locus horribilis pieno di poltroni e non un luogo con maggiore giustizia sociale e benessere psicologico?

Credete davvero che tutti, avendo giusto il minimo per vivere, smetterebbero di lavorare o svolgere attività sociali, artistiche, ricreative?

Per quanto riguarda la possibilità di finanziare un reddito di base, oltre le linee guida che ho già espresso in precedenza (imposte progressive, limitazione evasione/elusione fiscale, risparmio su “grandi opere” e spese militari), siccomme dovrebbe prendere diverse pagine, mi limito ad affermare che è economicamente possibile: la sua attuabilità, come quella di una riconversione ecologica, è solo subordinata a scelte politiche (Daniél Raventós, Guy Standing, Philippe Van Parjis, Roberto Ciccarelli).

Riporto infine una battuta di Daniél Raventós, con il quale ho avuto il piacere di partecipare ad una chiacchierata sulla iniciativa ciudadana europea por la renta básica incondicional, relativa al “pericolo” di dare soldi “a fondo perduto” a chi ne possiede pochi o nulla, in quanto li potrebbe spendere in alcol o droghe.

Daniél, mostrando il limite prettamente ideologico di questo “timore” ha detto: «Perché nessuno si preoccupa di come spendono i soldi i milionari? Forse i ricchi non bevono o non si drogano? No, il problema è nello scarto tra lo champagne e la birra in lattina».

Insomma siamo veramente sicuri che milioni di esseri umani non meritano di esistere?

È così scandaloso conferire una dignità minima a tutti?

Siamo talmente immersi nella “nuova ragione del mondo”, per la quale l’esclusione e la sopraffazione fanno parte della realtà introiettata, che pensare di riconoscere un minimo garantito a tutti desta scandalo. Ci sembra invece normale ed “accettabile” che 2000 super ricchi posseggano lo stesso patrimonio di 4,6 miliardi di persone. Così come riteniamo “normale” che buona parte di loro, pur avendo incrementato il proprio patrimonio durante la pandemia, mentre milioni di persone sono rimaste senza niente, continuino a non pagare quasi nessuna tassa in quanto con sede offshore o mediante altri “trucchi legalizzati”.

Carità, donazioni, empori, banchi alimentari, sussidi condizionati e altre forme di sottomissione pietistica non avrebbero più ragione d’essere: il reddito di base è un diritto incondizionato all’esistenza sul quale costruire un futuro collettivo.

Al momento è in corso l’iniziativa dei cittadini europei per introdurre redditi di base incondizionati, per la quale si può firmare direttamente sul sito dell’UE ( https://eci-ubi.eu./ ).

Siccome ho aperto l’articolo con Capitalist realism, ci tengo a chiuderlo con un tema per te fondamentale, carissimo Mark: quello della depressione, della tristezza, della difficoltà del vivere in senso psicologico. Quest’anno, a causa delle misure adottate per cercare di contrastare la pandemia, il disagio mentale è purtroppo aumentato. Sicuramente una maggiore redistribuzione delle risorse aiuterebbe moltissimo ad aumentare il benessere psicologico delle persone, ma forse è insufficiente se non accompagnata da una risignificazione dell’esistenza dell’uomo che vada oltre il monopolio del capitale sulla capacità desiderante, oltre la religione dell’egoismo, l’ingiustizia istituzionalizzata, le mancanze concrete ed emotive vissute esclusivamente come fallimenti personali, la spoliazione del pianeta finalizzata al mero profitto.

Oltre la riforma del welfare – verso la dignità incondizionata – e del modo di consumare ed inquinare ci vorrebbe quindi una riforma psicologica, capace di infondere obiettivi, sogni, significati e desideri nuovi.

È la nuova frontiera esistenziale e interpretativa che supera il disagio del mondo e della vita irregimentati nel pensiero unico post-sovietico e ci porta a volere naturalmente qualcosa di alternativo rispetto a ciò che è dato, perché «i filosofi hanno interpretato il mondo, ma ora si tratta di cambiarlo» (K. Marx). Questo desiderio, lungi dall’essere confinato in strette cerchie, sta diventando pian piano desiderio collettivo, in grado di creare un mondo meno diseguale, meno inquinato e meno violento, nel quale possiamo ridefinire i nostri parametri, ritrovando il significato di un’esistenza condivisa che vada oltre lo stress dei continui piani e obiettivi espansionistici – personali, aziendali, nazionali… – che creano uno sfruttamento di se stessi e degli altri (Byung-Chul Han) che, spesso in maniera subdola e inconscia, non ci permette di comprendere e vivere a pieno il senso della vita sulla terra.

È Il desiderio postcapitalista, come lo chiamavi tu.

Post scriptum: questo articolo deve molto alle riflessioni portate avanti – in questi mesi pandemici – insieme a Marco Occhipinti, con il quale siamo determinati a sviluppare una riflessione politica più ampia che possa scardinare alcune linee di pensiero inculcateci dalla “nuova ragione del mondo”.

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