[avvertenza per chi non ha visto la serie di Netflix The Queen’s Gambit, distribuita in Italia con il titolo La regina degli scacchi: l’articolo contiene spoiler a non finire]

«Gli errori sono tutti lì sulla scacchiera, in attesa di essere commessi.» (Savelij Grigor’evič Tartakover, Gran Maestro Internazionale, 1887 – 1956)

Ho ricevuto la mia prima scacchiera e il libro Gli scacchi per tutti* più o meno in terza elementare; pochi anni dopo mi è stata regalata una seconda scacchiera più lussuosa, tutta di legno laccato e con i pezzi intagliati a mano. Possiedo ancora entrambe le scacchiere e il libro: non mi risulta che altri oggetti della mia infanzia siano sopravvissuti, pressoché integri, allo scorrere del tempo.

Non ho mai partecipato ad un torneo (esclusi quelli online), mai frequentato un circolo, mai avuto alcuna tessera; da diversi anni mi capita molto di rado di giocare una partita dal vivo. Potrei descrivermi come una delle tante persone che sa giocare a scacchi e che ha qualche nozione di tattica, aperture e teoria dei finali, e niente di più. Eppure, non potrei mai definire gli scacchi come un hobby, un passatempo – e nemmeno come una passione o un interesse. Chi gioca può capirmi: gli scacchi sono un’ossessione.

Nel mio caso, un’ossessione incostante che si presenta e scompare, resta sopita – magari per molto tempo – e poi si ripresenta, immune allo scorrere del tempo. Mi capita di non giocare una partita né studiare una posizione per mesi, e da un giorno all’altro mi ritrovo a divorare una partita blitz** dopo l’altra contro avversari senza volto, nascosti al di là dello schermo. Imparare le aperture, mandare a memoria sequenze di mosse, valutare la solidità di una posizione: non c’è fine alle sfide che si possono incontrare su una scacchiera, e oltre all’aspetto puramente intellettuale, già di per sé seducente, c’è quello della competizione. La vittoria regala un senso di trionfo feroce e silenzioso che nessun altro gioco può offrire; la sconfitta è vergogna, rabbia, un dolore bruciante che può essere curato solo cominciando una nuova partita.

A novembre, quando ho visto The Queen’s Gambit, ero da poco tornato in fissa dopo un lungo periodo di lontananza dal gioco. Non ho mai letto il libro di Walter Tevis da cui è tratto il soggetto, ma immagino che molte delle considerazioni che farò qua sotto si possano applicare anche al romanzo.

La serie ovviamente ha alimentato la nuova fase ossessiva, inducendomi però a farmi una domanda che non mi ero mai posto prima: cosa sono gli scacchi nell’immaginario di chi non sa giocare? Come può una storia che parla di scacchi essere interessante per chi non gioca a scacchi?

L’identificazione con Elizabeth Harmon per me è stata immediata: non solo perché amo il gioco, ma anche perché l’ho scoperto in un modo simile al suo, fatto salvo il contesto: più o meno alla stessa età, e non grazie all’iniziativa di un adulto ma sull’onda di una potente attrazione visiva. Uno dei ricordi più nitidi della mia infanzia è questo: degli amici di famiglia avevano a casa una scacchiera di pietra, con i pezzi scolpiti a formare delle figure antropomorfe e piuttosto dettagliate. Una di quelle scacchiere che si ricevono in regalo e che sono troppo delicate per giocarci, così che diventano parte dell’arredo.

Quella scacchiera, con i pezzi schierati nella posizione di partenza, era una calamita irresistibile: dovevo imparare, dovevo scoprire il funzionamento di quel mondo quadrato. Così è cominciata la mia piccola ossessione, con una scacchiera portatile e un manuale – regalati forse da uno zio. Frequento ancora quella casa e la scacchiera è sempre lì, immobile nella sua solennità: vederla è sempre una madeleine potentissima.

The Queen’s Gambit è una grande conquista per la rappresentazione del gioco su uno schermo: di solito le partite di scacchi al cinema e in TV contengono mosse improbabili o addirittura insensate (nel Settimo Sigillo neanche la scacchiera è posizionata correttamente: la casella nell’angolo a sinistra di ciascun giocatore deve essere nera). Le partite giocate da Elizabeth, al netto di qualche piccola imprecisione, sono logiche e realistiche. Di più: sono ricalcate su veri incontri giocati in tornei internazionali (scelti e in alcuni casi revisionati da Garry Kasparov, campione del mondo dal 1985 al 2000). Altro dettaglio non trascurabile: per una volta gli scacchi non sono mostrati come qualcosa di ostico e inutilmente complicato. Tutt’altro: in TQG gli scacchi sono una cosa estremamente figa. Noi che giochiamo lo sapevamo già.

Date le premesse, sarebbe stato impossibile per me resistere al fascino di una serie simile. Poi però mi sono chiesto: com’è che è piaciuta tanto a gente che non sa nemmeno muovere i pezzi? Cosa c’è di interessante, al di là del gioco?

La sceneggiatura, seppur ben scritta, non è esattamente un capolavoro: le premesse non troppo originali, l’ascesa costante e inarrestabile della protagonista, la struttura da battle shonen e il finale fin troppo positivo sono i punti critici più evidenti. Tutto si svolge in maniera abbastanza lineare, senza grandi sorprese (non che sia per forza un male: personalmente ho apprezzato la volontà degli autori di non cercare colpi di scena e cliffhanger forzati), ed è lecito sospettare che con una diversa attrice protagonista il risultato sarebbe stato di molto inferiore: il carisma di Anya Taylor-Joy è il fattore che incolla lo spettatore allo schermo, e la sua interpretazione vale da sola il prezzo del biglietto.

L’ottima ricostruzione storica descrive con precisione il livello quasi amatoriale del movimento scacchistico statunitense negli anni Sessanta, epoca di incontrastato dominio sovietico. La fotografia, i costumi, le case, le automobili, la musica: la messa in scena è curatissima e molto appagante per i sensi. Ma tutto questo è sufficiente a spiegare un successo così clamoroso? I motivi per cui io ho apprezzato la serie mi sono chiarissimi, ma trovo più difficile capire come mai sia stata accolta con tanto entusiasmo dal pubblico di Netflix.

Di certo ha avuto un ruolo il messaggio femminista trasmesso dalla serie: una donna dal passato tragico, proveniente da un contesto di povertà e di estremo disagio che trasforma la sua passione in un lavoro, ottenendo ricchezza e fama e – soprattutto – facendosi largo con la sola forza del proprio talento in un mondo sino a quel momento riservato ai maschi. The Queen’s Gambit è, tra le altre cose, un’ode al talento femminile che arriva in un momento storico in cui la sensibilità dell’opinione pubblica sulla parità di genere è in costante aumento, e la sua specificità sta nel modo inconsueto con cui si accosta al tema.

Il maschilismo dell’ambiente scacchistico, per quanto evidente, non è il tema centrale, anzi smette ben presto di essere un tema. La rapidità con cui gli scacchisti accettano il fatto che una donna sia più forte di tutti loro può sembrare inverosimile; d’altra parte, la serie chiarisce dal primo momento che Elizabeth è una persona fuori dal comune, un prodigio che tutti riconoscono subito come tale. La protagonista non vede il suo essere una “intrusa” in un ambiente maschile come una motivazione aggiunta o un’occasione di rivalsa, se non in minima parte. Il messaggio della serie è lineare, apolitico, spietato come sono gli scacchi: chi è più forte vince, e se il più forte è una donna, sarà una donna a vincere. La lotta contro sé stessi conta più della lotta contro gli altri, coltivare la propria passione è più importante che rivendicare il proprio diritto ad averla. La stessa Beth, interrogata da una giornalista sul suo essere l’unica donna tra tanti uomini, manifesta il suo scarso interesse per l’argomento: «I don’t mind. Chess isn’t always competitive. Chess can also be beautiful.»

La serie potrebbe anche essere accusata di piaggeria filo-americana: non solo Beth arriva a sfidare e sconfiggere i campioni russi a casa loro, ma viene acclamata dal pubblico locale (e dagli avversari), cosa che a molti è sembrata inverosimile visto che la storia è ambientata in piena guerra fredda. È una critica che capisco e che in parte condivido, anche se credo che quella scena debba essere contestualizzata: innanzitutto perché a fare il tifo per Beth, fuori dal palazzo in cui si svolge il torneo, ci sono soprattutto donne. A me questo è sembrato il momento più genuinamente girl power della serie. Certo, un pubblico di russi che nel 1968 si raduna per applaudire una statunitense non è molto credibile, ma è anche un pubblico di donne che si raduna per applaudire una donna. Una donna che gioca a scacchi divinamente, dimostrando agli uomini di saper fare meglio di loro. Questa faccenda dell’applauso poi è una citazione di un fatto realmente accaduto, ma ci arrivo tra un po’.

La molla che mi ha portato a scrivere questo pezzo è stata l’ascolto di Pilota, un podcast dedicato alle serie tv: TQG è stata oggetto di dibattito di un mini-episodio che ha messo in luce i punti deboli della serie – quelli a cui accennavo prima: trama, tematiche, eccetera. Ora, sono abbastanza sicuro che quelli di Pilota non giochino a scacchi, quindi posso considerare il loro parere come rappresentativo di un pubblico molto competente in fatto di serialità e il cui giudizio non è influenzato dal fatto che la serie parla del loro gioco prediletto. Non è che abbiano stroncato TQG: sostengono solo che il successo ottenuto sia sproporzionato rispetto alle sue qualità. A me è piaciuta molto ma capisco il loro punto di vista, anzi è quello che mi aspetterei da qualunque spettatore che non abbia la mia stessa mania: se non ami gli scacchi, come fai ad appassionarti ad una storia così? Anche perché, come segnalato nel podcast, che la protagonista sia una donna è quasi accidentale. Abbiamo visto che il tema dell’emancipazione femminile è solo una parte della storia, e di certo non la più importante.

L’intera serie è costruita sul gioco, sulla sua storia e sui suoi simbolismi: i titoli degli episodi, i riferimenti alle aperture e ai campioni dei decenni precedenti, i continui richiami alla geometria della scacchiera nelle scenografie, l’abbigliamento di Elizabeth (che nell’ultima scena è inequivocabilmente vestita da regina bianca). Persino il titolo, che è il nome dell’apertura 1. d4 d5 2. c4, non è scelto a caso: il gambetto è una mossa con cui un giocatore offre un pedone in sacrificio all’avversario, mirando a compensare la perdita del pezzo con un guadagno nella rapidità dello sviluppo e nel posizionamento. La metafora scacchistica riassume alla perfezione il nucleo della storia: il prezzo che Elizabeth deve pagare per arrivare in cima al mondo, i sacrifici necessari per vedere riconosciuto il proprio talento.

Il centro di tutto è la scacchiera, il motore della storia è il gioco. Nessun film, nessuna serie ha mai raccontato così bene l’ossessione che gli scacchi sanno generare: solo Stefan Zweig era riuscito a fare di meglio con la sua Novella degli scacchi, ma parliamo di un romanzo e di un’altra epoca. The Queen’s Gambit è un atto d’amore nei confronti del gioco più bello del mondo, ed è la prima volta che abbiamo l’occasione di vedere qualcosa di simile su uno schermo. E, per chi conosce la storia degli scacchi, con i suoi eroi e le sue leggende, c’è un altro aspetto molto importante. Mentre guardavo la serie avevo un forte sospetto, poi confermato da recensioni e analisi che ho letto in giro: il personaggio di Elizabeth è ispirato ad uno degli scacchisti più forti e controversi di ogni tempo.

Robert James “Bobby” Fischer (1943 – 2008) è l’uomo che nel 1972 ha interrotto la lunga egemonia sovietica negli scacchi (l’ultimo campione del mondo a non parlare russo era stato l’olandese Max Euwe nel 1937). La sfida di Reykjavík contro Boris Spassky, passata alla storia come “l’incontro del secolo”, è un momento iconico della rivalità culturale USA-URSS, ed è lì che gli scacchi escono dalla ristretta bolla degli appassionati per finire al centro dell’attenzione di tutti, anche di chi non sa giocare; è, tra l’altro, il primo match di scacchi trasmesso in televisione (e seguito da milioni di spettatori).

Fischer è una sorta di archetipo del genio lunatico: precoce e incredibilmente dotato, al punto da portare il gioco a livelli mai visti prima, ma anche rancoroso, paranoico, megalomane e insofferente alle sconfitte; dopo aver strappato il titolo a Spassky ha sabotato la propria carriera, ha scavato un solco tra sé e il mondo degli scacchi e ha litigato con tutti, anche con quelli che stavano dalla sua parte. Consiglio, per chi volesse approfondire, questa bella monografia pubblicata su L’Ultimo Uomo.

Potremmo vedere The Queen’s Gambit come una elaborata ucronia: cosa sarebbe successo se il più grande scacchista americano del XX secolo fosse stato una donna? Forse sarebbe stata una figura meno divisiva, meno chiusa in sé stessa, più disposta a condividere il peso del proprio genio? Per quanto mi riguarda, la chiave di lettura più interessante di TQG è questa. La protagonista della serie ha un carattere ombroso, poco conciliante, impulsivo: una sorta di versione soft del campione americano a cui la sua figura si ispira. La dipendenza di Elizabeth dall’alcool e dai farmaci, tra l’altro, non è un riferimento a Fischer, ma rimanda ad altri campioni noti per i loro stravizi: in particolare Alexandr Alekhine, che nel 1935 cedette il titolo mondiale a Euwe anche perché ridotto all’ombra di sé stesso dall’alcolismo; due anni dopo si prese la rivincita sull’olandese dopo essersi completamente disintossicato. Una parabola che ricorda da vicino quella di miss Harmon.

Gli autori della serie hanno deciso di tenere la politica fuori dalla trama: Elizabeth vuole sconfiggere i sovietici non per odio, ma solo per dimostrare di essere degna dei migliori; il pubblico russo, a sua volta, la prende in simpatia al punto da tifare per lei, e anche gli avversari rendono omaggio al suo talento. Nella realtà, Fischer definì i russi «bugiardi, bari e ipocriti» (in seguito avrebbe anche definito Kasparov «un criminale, una disgrazia per gli scacchi e per la razza umana»), perché nei tornei concordavano tra loro le patte così da risparmiare le energie per gli altri avversari; gli stessi russi accusarono gli americani di manipolazioni e imbrogli di ogni genere; la federazione scacchistica e il governo degli Stati Uniti cercarono di trasformare Fischer in uno strumento di propaganda (poco tempo dopo il campione sarebbe arrivato a rompere tutti i rapporti con la madrepatria e a diventare ferocemente anti-americano); le polemiche sul regolamento furono infinite, sia prima che dopo la finale di Reykjavík. Mi viene da pensare che gli autori di TQG abbiano deciso di lasciare fuori la politica perché nel mondo vero ce n’era troppa: forse la serie avrebbe finito per accartocciarsi su quel tema, e sarebbe diventata una cosa molto diversa.

L’applauso “irrealistico” dei russi a Elizabeth è un riferimento ad un fatto avvenuto durante l'”incontro del secolo” che può sembrare altrettanto inverosimile, visto il clima avvelenato di Reykjavík: alla sesta partita, con il punteggio in parità, Fischer rinunciò alla sua fidata apertura 1. e4 e giocò un gambetto di Donna (chissà se questo dettaglio ha pesato nella scelta del titolo della serie; per me che uso regolarmente questa apertura, in ogni caso, la suggestione è fortissima). La difesa di Spassky fu sbaragliata, e dopo essersi arreso il russo si unì all’applauso del pubblico nei confronti dello statunitense, che aveva dimostrato una superiorità incontestabile. La partita, che spostò l’inerzia della finale a favore di Fischer, è rimasta nella memoria degli appassionati come una delle più belle di sempre, e gli autori di TQG hanno voluto omaggiarla con quella scena trionfale. Scena che è, in tutto e per tutto, un easter egg per gli amanti del gioco. Come tanti altri particolari della serie, è stato pensato da scacchisti per essere apprezzato da scacchisti.

Sono partito alla ricerca dei motivi per cui TQG ha fatto breccia anche tra chi non gioca a scacchi: in realtà ho finito per scoprire che le caratteristiche più interessanti della serie sono proprio quelle che difficilmente uno spettatore medio può cogliere, e che per uno scacchista sono immediate. Viene quasi da pensare che la serie sia stata realizzata appositamente per accendere la passione di noi fanatici; solo che, per qualche motivo misterioso, è arrivata ben oltre il confine che non era pensata per oltrepassare.

Tra le ragioni di questo successo ci sono la già citata prova d’attrice di Anya Taylor-Joy, il fatto che le vite dei geni sono spesso seducenti, la vivida ricostruzione di un periodo storico che tende naturalmente ad attirare l’attenzione. Un motivo ulteriore, secondo me, è l’effetto provocato dall’accuratezza con cui le partite sono rappresentate: anche chi non sa giocare a scacchi intuisce che nulla di ciò che sta vedendo è casuale. Questo, se vogliamo, è un dettaglio che contiene un bell’insegnamento: vale sempre la pena fare un lavoro preciso, dettagliato, credibile – anche se è rivolto ad un pubblico che potrà comprenderne solo una parte.

Per finire, credo che un motivo del successo di The Queen’s Gambit sia proprio quel finale tanto ottimista: è possibile sconfiggere i propri demoni, o almeno domarli; è possibile godersi le ossessioni senza lasciare che ci divorino; è difficile, ma possibile, resistere alla dipendenza, alla solitudine, al male di vivere. Forse, in altri tempi un finale così sarebbe stato considerato troppo zuccheroso, troppo consolatorio – d’altronde, il lieto fine ha una così brutta fama che sempre più spesso lo si evita con cura, al punto che può arrivare ad essere un finale a sorpresa – e, in definitiva, improponibile. Sospetto che un’opera simile potesse essere accolta così bene solo in un periodo incerto e difficile come quello che stiamo vivendo: tra giorni tutti uguali e vuoti, in cui anche solo uscire di casa può sembrare un azzardo e lo spazio a nostra disposizione è circoscritto, credo che The Queen’s Gambit sia stata recepita come un invito a non abbandonare il gioco e a non aver paura della mossa successiva – né quella dell’avversario, né tantomeno la propria.

* Gli scacchi per tutti (Angelo Cillo e Sergio Luppi; Mursia, 1976)

** le partite lampo (blitz nel regolamento internazionale) sono quelle in cui il tempo complessivo a disposizione di ciascun giocatore è uguale o inferiore a 10 minuti. Le partite con tempo al di sotto dei 3 minuti si chiamano bullet.

[in copertina: Sir John Lavery, The Chess Players, 1929]

NESSUN COMMENTO

LASCIA UN COMMENTO