Gendo Hikari: Era da tre anni che noi non venivamo qui insieme.
Shinji Hikari: Io… dopo quella volta, quando scappai, non sono più venuto qui… in questo luogo riposa mia madre, ma non ne ho forte impressione. Non ricordo neppure il suo viso.
Gendo Hikari: Dimenticando i propri ricordi, le persone riescono a vivere. Però vi sono cose che non si devono assolutamente dimenticare. Yui mi ha fatto conoscere quel qualcosa che per me è insostituibile. Io vengo in questo luogo in riconferma di ciò.
Shinji Hikari: Non ci sono delle sue foto?
Gendo Hikari: Non ne sono rimaste, e anche questa tomba è una mera decorazione, priva di spoglie.
Shinji Hikari: Ci si è disfatti di tutto. Proprio come aveva detto il mio tutore.
Gendo Hikari: È tutto dentro il mio cuore. Per ora basta così.

Il 4 ottobre 1995 la piccola emittente giapponese TV Tokio trasmette il primo di ventisei episodi di un anime dello Studio Gainax, già autore del visionario Nadia dei mari delle meraviglie (che in Italia abbiamo conosciuto e amato con il titolo Il mistero della pietra azzurra).

La nuova creatura del genio dell’animazione Hideaki Anno (che a soli 24 anni era stato chiamato a collaborare al capolavoro di Miyazaki Nausicaä della valle del vento) va in onda in meno di un quarto del paese ad un orario sfavorevole, le 18:30, ed è un flop clamoroso: percentuali d’ascolto avvilenti, la produzione subisce un pesante taglio del budget e gli ultimi episodi sono messi su a forza di animazione limitata e riciclo di sequenze già utilizzate. Un disastro, per uno studio d’animazione già vessato dai problemi finanziari.

Successivamente, la serie viene trasmessa in replica notturna, orario più accessibile ad un pubblico adulto, e inizia a circolare in VHS. È il trionfo. Un successo clamoroso, travolgente, che in poco tempo scavalca i confini dell’arcipelago e si estende a tutto il mondo. La serie è Neon Genesis Evangelion, l’anime più grandioso e complesso (psicotico?) di ogni tempo.

Nel 1997 esce The End of Evangelion, film di 87 minuti che riprende la narrazione dall’inizio del 25esimo episodio: un finale alternativo di una bellezza che acceca, se possibile più delirante e indecifrabile dell’originale. La rivoluzione è completata.

Andando a rivedere quel che succede nei dieci minuti iniziali del primo episodio, parlare di “opera rivoluzionaria” può sembrare assurdo: un mostro gigantesco incombe su Tokio e l’esercito non riesce a fermarlo; un ragazzino di 14 anni arriva in una base militare sotterranea, dove viene messo alla guida di un gigantesco robot da combattimento e sale in superficie a difendere la città dall’invasore. Tutto qui. Un banale, scontatissimo mecha. Com’è che allora è considerato da molti la serie che più di tutte ha cambiato il mondo degli anime?

Se si ha la pazienza (e lo stomaco) di andare avanti nella visione si scoprono i perché di questo successo senza precedenti: i mostri che attaccano Tokio si chiamano “angeli” (nell’originale shito, “apostoli”, ma hanno i nomi degli angeli della tradizione ebraica, e a guardare le etimologie la differenza è poca); i robot non sono robot, soffrono e ululano e sanguinano (alla fine della serie viene svelata la loro vera natura); le scene d’azione e di combattimento sono meravigliose e selvagge, come mai se n’erano viste; il tema fantascientifico si mescola a quelli biblici e mitologici in un intreccio assassino che toglie il sonno e resta impresso nella mente per sempre (e non credo di esagerare); la psicologia dei protagonisti viene approfondita a livelli inimmaginabili sino ad allora, con punte di paranoia e depressione terrificanti; e poi ci sono la cabala – proprio così: l’intera serie è piena di riferimenti alla cabala ebraica –, il disagio adolescenziale, la questione morale posta dalla tecnologia, il terrore della catastrofe globale, il frutto della vita e il frutto della conoscenza, i rapporti tra genitori e figli, la politica internazionale, le barriere fisiche e psicologiche che ci separano dalle altre persone e ci rendono individui definiti. Il tutto messo insieme con un gusto cinematografico degno del miglior Kubrick: alcune carrellate sembrano prese da 2001: Odissea nello spazio e l’uso chirurgico della musica classica nella colonna sonora suggerisce diversi e inaspettati piani di lettura.

Ogni episodio ha due titoli, uno in giapponese e uno in inglese, e così è anche per The End: il secondo titolo del “nuovo” episodio 25 è Love is destructive, ed è forse la frase che riassume il senso dell’intera serie. Tutto ruota intorno alla ricerca ossessiva dell’amore (carnale e non) da parte dei protagonisti, che però se ne ritraggono quando lo hanno a portata di mano. Un fare e disfare snervante, senza soluzione di continuità, nelle vicende dei personaggi come nella storia del genere umano: l’amore è distruttivo, sembra ribadire Anno in ogni episodio, in ogni dialogo.

Nel 2007 gli autori (ora riuniti sotto l’insegna dello Studio Khara) tornano a lavorare alla loro creatura: esce il primo film della tetralogia Rebuild of Evangelion, un progetto che presenta al pubblico una storia in buona parte deviante da quella originale: diversa trama, personaggi aggiuntivi e, a quanto sembra, un finale tutto nuovo. A fine settembre 2013 è arrivato in Italia il terzo film della “ricostruzione”. È solo l’ultimo atto di una produzione parallela sterminata, che non conosce uguali nella storia dell’animazione: fanfiction, manga più o meno ufficiali, migliaia di siti internet dedicati, merchandising di ogni tipo, tonnellate di hentai (che in alcuni casi è arrivato a competere in notorietà con la storia ufficiale).

Personalmente non ho ancora avuto il coraggio di vedere i film del Rebuild, nel timore di una probabile delusione: da adulti è difficile scendere a patti con “aggiornamenti” di opere amate da adolescenti, il conservatorismo e i pregiudizi tendono a prendere il sopravvento.

In attesa che la curiosità si faccia irresistibile, si può continuare a contemplare il genio folle che percorre la serie originale e il film conclusivo, interrogarsi sul mistero del successo planetario che ha riscosso.

Mistero è la parola giusta, perché in nessun modo Evangelion può essere considerato un prodotto “commerciale”, nel senso di facile da vendere: la violenza smodata lo rende inadatto ad una vasta parte del pubblico (bambini in primis: si tratta a tutti gli effetti di un seinen); la trama è contorta sino all’incomprensibile (basta andare su un qualunque forum dedicato per constatare la mole di discussioni ancora in corso tra i fan intorno ai molti misteri rimasti insoluti); le ossessioni dei protagonisti crescono di episodio in episodio, sino a divorare ogni altro aspetto della storia e farsi insostenibili; da tre quarti della serie sino alla fine è evidente lo scadimento di qualità dell’opera, culminante nell’opprimente staticità degli ultimi due episodi.

Nonostante (e forse anche grazie a) questi “difetti”, Evangelion è il più celebrato anime di tutti i tempi; probabilmente il più bello; di certo il più longevo, quello destinato a restare impresso nella cultura popolare per decenni come nessun altro. Il mistero della sua popolarità è stato ben riassunto dal suo creatore Anno: «È strano che Evangelion abbia avuto un tale successo. Tutti i personaggi sono così malati!»

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Nato nel 1984, vive a Sant'Antioco (Sardegna sud-occidentale). Bibliotecario, scrittore e redattore; nel 2017 ha vinto la VI edizione del premio letterario RAI "La Giara"; ha pubblicato i romanzi "Il Grande Erik" (Rai Eri, 2018) e "Le case del sonno" (Edizioni La Gru, 2019), più la raccolta di racconti "Storie dei padri" (2019, autopubblicazione) e il racconto breve "Il giardino" (Libero Marzetto Editore, 2021). Ama la fantascienza distopica, il garage rock, i fumetti.

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