Volevo essere famoso 40 anni fa, non ho mai pensato di diventare ricco, ora sono famoso e non ho un penny in tasca, così ho raggiunto il mio obbiettivo nella vita.

(Joop Roelofs)

Nel rock degli anni Sessanta c’è una dicotomia a cui non si sfugge, due sole patrie sono possibili: Stati Uniti e Inghilterra. Altrove, i movimenti musicali sono sparuti e incapaci di rispondere in modo innovativo alle proposte provenienti da Londra, da New York e dalla California. C’è però un Paese, piccolo e combattivo, che fa eccezione: l’Olanda.

A partire dal 1963, sull’onda del grande successo dei Beatles, comincia la british invasion. Non si chiama ancora così: si guadagna questo nome quando sbarca in America l’anno successivo, ma prima si diffonde in Europa e la sommerge. I Paesi Bassi non fanno eccezione. L’influenza dei FabFour ispira la nascita di una teoria di gruppi che ne imitano lo stile e le sonorità.

Nel 1960, intanto, è nata Radio Veronica, stazione pirata che trasmette da una nave al largo della costa olandese per aggirare le leggi sull’etere (come la più celebre Radio Caroline, la cui storia ha ispirato il film del 2009 di Richard Curtis I Love Radio Rock). In pochi anni Veronica diventa la radio più popolare del Paese e dà un grande contribuito alla diffusione del pop.

È su questo terreno fertile che nasce una leva di band agguerrite, vogliose di imporsi nonostante l’handicap della provenienza da una periferia del rock. La capitale di questo fermento non è Amsterdam ma la placida Den Haag (in italiano L’Aia). Sul lungomare della cittadina fioccano i beat club e Veronica è alla fonda proprio di fronte al porto, a fare da patrona per i giovani musicisti che cercano la via del successo. Il movimento è così vasto che verrà coniato un termine specifico per definirlo: Nederbeat, il beat dei Paesi Bassi.

In quella stagione fioriscono gli Shocking Blue (autori dell’immortale Venus), The Motions e The Outsiders; le stravaganze prog dei Focus e l’hard rock dei Golden Earrings (destinati a raggiungere la fama mondiale, molti anni più tardi); i blues desolati dei Cuby + Blizzards. Ci sono poi dei loschi giovanotti che fumano hashish a volontà e che adorano Willie Dixon senza conoscerlo, perché riprendono le sue canzoni dopo averle sentite da altri. Un quintetto di adorabili dilettanti: i Q65.

La band viene fondata nel 1965 dai chitarristi Frank Nuyens e Joop Roelofs, che reclutano il cantante Willem Bieler. Da un’altra band locale, i Leadbelly’s Limited, arrivano i due membri che completano l’organico: Peter Vink (basso) e Jay Baar (batteria). Riescono ad ottenere un contratto con la Decca Records e nel gennaio dell’anno successivo il loro primo singolo, You’re the Victor, conquista l’undicesima piazza della Dutch Top 40.

Comincia così l’ascesa del gruppo, che in breve diventa uno dei più amati dei Paesi Bassi. Bollati come imitatori dei Pretty Things (a causa dei loro concerti infuocati e oltraggiosi, come quelli della band di Phil May), in realtà le loro influenze dichiarate arrivano dall’America del soul: Sam & Dave, Otis Redding, Wilson Pickett.

Il secondo singolo The Life I Live è il loro maggiore successo e sembra il perfetto trampolino per il lancio internazionale. La casa discografica organizza un viaggio promozionale a Londra, diventato leggenda: giunti nel Regno Unito in nave, scoprono di non avere i permessi di soggiorno in regola e vengono rispediti indietro. Tornano a casa a bordo di un gommone, scampando ad una tempesta grazie all’intervento del capitano della dragamine che li aveva scortati a Londra. Trascorrono la notte in un porto belga e il giorno dopo giungono stremati sulla spiaggia di Scheveningen, accolti da migliaia di fan adoranti. La festa per il ritorno del gruppo sfocia in un concerto improvvisato per i sostenitori accorsi a riceverli. Uno splendido fallimento, perfetta anticipazione di ciò che sarà il loro primo LP: Revolution.

Per parlare di questo disco bisogna cominciare elencandone i difetti: innanzitutto, la copertina. Una della più brutte mai realizzate (vedere per credere). Quanto alla musica, i puristi della tecnica potrebbero inorridire: i Q65 sono storti, imprecisi, privi di qualunque riguardo per i brani altrui (su dodici brani sei sono cover). Come non bastasse, Bieler canta in un inglese tremendo (nessuno di loro l’aveva mai studiato). Tenuto presente tutto questo, Revolution è un piccolo capolavoro del garage rock.

Se non brillano per tecnica e consapevolezza, i Q65 compensano con il furore, che raschia di polvere e ruggine le esecuzioni dei brani, e con una splendida vena compositiva che li porta ad oltrepassare i confini del beat. I pezzi autografi della band ne mettono in luce la straordinaria creatività: in particolare, sono autentici gioielli Just Who’s in Sight, segnata da un imprevedibile assolo di ocarina; la struggente Sour Wine; la bellissima Summer Thoughts in a Field of Weed, forse il brano più riuscito del disco. Da rimarcare la sezione ritmica poderosa e il travolgente assolo di Nuyens: chitarrista schizoide e inurbano, ma ispiratissimo.

Il punto di forza del gruppo è lo stile estremo e primitivo: i “cattivi ragazzi” d’oltremanica di quel periodo, come i Pretty Things o i Rolling Stones, sono molto più puliti e perbene. I Q65 suonano punk prima del punk: rozzi, sfrenati. E riescono a sorprendere in continuazione. Il disco si chiude it on Home, classico di Sonny Boy Williamson (scritto da Dixon), che i cinque di Den Haag trasformano in una folle suite elettrica di tredici minuti in cui, ad un certo punto, fa capolino il Bolero di Ravel. Selvatici, imprevedibili, pronti a spiazzare l’ascoltatore con fenomenali invenzioni. La buona qualità della registrazione, per fortuna, rende giustizia alle loro performance.

Il successo dei Q65 in patria è solido, grazie anche all’intensa attività live, ma (destino comune a quasi tutti i loro connazionali) non riesce a passare al di là della frontiera. Nel 1967 si confermano in stato di grazia pubblicando l’EP Kjoe Bloes: anche qui c’è poco di autografo (solo un brano su quattro, 80% O), ma i cinque, citando Elio e le Storie Tese, continuano a “suonare male da Dio”.

Nei tre anni seguenti pubblicano sei nuovi singoli, poi raccolti nel secondo album Revival (1969). Disco interessante anche se discontinuo (fu pubblicato dalla Decca all’insaputa del gruppo). I brani che riprendono lo stile di Revolution sono mescolati disinvoltamente a episodi più sperimentali: su tutte il coraggioso azzardo di Mother’s Motha Great Sundance Circus, danza tribale registrata nell’ambito del progetto Circus, poi rimasto incompiuto. Gli altri pezzi forti del disco sono World of Birds, marcia appassionata e solenne, e Voluntary Peacemaker, etilica e quasi bowiana nel gusto decadente (quando ancora Bowie non c’era).

Negli anni successivi all’esordio la tecnica dei musicisti migliora, ma viene meno la capacità di stupire mostrata su Revolution. È il preludio al declino, che arriva inesorabile di lì a poco. Di fatto, la band viene affossata nel 1968 dalla partenza di Bieler per il servizio militare. Con la fine degli anni Sessanta si conclude anche l’epopea del beat (il 1970 è l’anno in cui si sciolgono i Beatles e, per contrappasso, salgono alla ribalta i Black Sabbath), trascinando con sé nel passato una miriade di band incapaci di cogliere il cambio di stagione in atto.

I Q65 fanno certamente parte di questa categoria: nel 1970, dopo l’uscita dal gruppo di Baar (rimpiazzato da Beer Klaasse) pubblicano Afghanistan, terzo disco di inediti che segna un deciso cambio di genere. La band suona sempre con passione, ma l’ispirazione è in caduta libera. Il tentativo di mettersi al passo dei tempi con sonorità hard e prog non fa che peggiorare le cose: il risultato è un onesto disco rock-blues, assolutamente anonimo. In una gustosa intervistaRetrophobic, Roelofs sostiene che «Afghanistan era una nostra idea, ma tutti nella band erano troppo occupati a fumare hashish afgano per essere capaci di essere critici riguardo le canzoni sull’album […]. Afghanistan è come quello che fumavamo: merda.»

Nel 1971 esce We’re Gonna Make It, che si segnala per l’atroce copertina, forse più brutta di quella di Revolution. Anche stavolta si tratta di una raccolta di brani sparsi pubblicata dalla casa discografica senza consultare i musicisti. Album confuso e senza idee, che mostra chiaramente come il treno dei Q65 sia ormai passato. L’anno dopo la band cessa ogni attività e cade nell’oblio. Nei due decenni successivi ci saranno alcune brevi reunion per dei concerti in patria, poi più nulla.

Se fossero arrivati da Londra o dagli USA forse avremmo sentito parlare di loro molto più a lungo; magari sarebbe stata riconosciuta loro una qualche paternità per ciò che è venuto dopo (il punk e soprattutto la rilettura del blues in chiave punk, da loro inconsapevolmente intuita con molti anni di anticipo), e quel disco eccezionale, Revolution, non sarebbe rimasto confinato ai margini del mondo della musica. Ma il Nederbeat ha una sola patria, e la “rivoluzione” fallita dei Q65 non poteva avere una storia diversa. E in uno strano modo il tempo ha dato loro ragione: oggi sono una band di culto, venerata da schiere di musicisti garage di tutto il mondo. Anche in Inghilterra e negli States, che pure a suo tempo non si erano accorti di loro.

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