Nel grande ospedale, i corridoi di pietra risuonavano di voci sommesse e passi affrettati; gli uomini della Confraternita vestivano con lunghi camici neri e maschere di ceramica che nascondevano i loro visi, per buon auspicio. Dall’alba sino al calare del sole si affaccendavano attorno ai malati che affollavano le stanze, e che continuavano ad arrivare da ogni angolo della nazione; versavano nel loro sangue pozioni benauguranti, officiavano i sacramenti e recitavano le preghiere che accompagnavano le anime oltre il confine.

Gli addetti del cimitero indossavano gli stessi camici degli uomini della Confraternita, ma al posto delle maschere avevano cappucci scuri e tondi, con una fascia a coprire il viso lasciando scoperti soltanto gli occhi. Portavano via i corpi al ritmo di uno ogni mezz’ora, a bordo di lettighe di legno e stoffa.

L’ospedale era una gigantesca torre dal corpo tondeggiante che sembrava arrivare fino al cielo, e che continuava a crescere. Sulla sommità, uomini vestiti di stoffe ruvide portavano avanti la costruzione, e alla fine di ogni giorno l’edificio era più alto di un metro o due. Dalle finestre spalancate e dal tetto, le voci degli uomini risuonavano nella valle: i membri della Confraternita erano tanti e bene organizzati, ma le loro parole si disperdevano nell’aria inascoltate, come se nessuno riuscisse più ad intendere la lingua dell’altro; i malati arrivavano a piedi, a bordo di carri e barelle di fortuna, ed erano sempre più numerosi ad ogni nuova alba, ognuno con la sua disperazione irripetibile da sommare alle altre.

Nel corridoio dell’ultimo piano, il Maestro della Confraternita sedeva su una scrivania accanto alle scale e seguiva con lo sguardo il lavoro dei confratelli: era un uomo alto e possente, il viso segnato da vecchie cicatrici guadagnate durante la guerra e la caccia. Portava la veste nera del suo ordine ma non la maschera bianca, che teneva posata sulla scrivania. Accanto a lui stava un bambino dallo sguardo festoso e vivace; portava un abito semplice fatto di pelli e di corde, i piedi nudi sulla pietra levigata del pavimento. In piedi tra la scrivania e le scale, osservava con attenzione i volti degli uomini distesi sulle lettighe: quelli che salivano in cerca di cure, quelli che scendevano per essere sepolti.

«È lui?» chiese il bambino indicando un uomo vecchio di molti anni, dal volto scavato e pallido. Il Maestro lo guardò per un momento e poi scosse la testa, mentre il vecchio veniva condotto dentro una delle stanze. Il bambino vide quattro uomini con un’altra lettiga uscire dalla stessa stanza, e sulla lettiga c’era un corpo senza vita: saltellando allegro, raggiunse gli uomini e li seguì sino alle scale, sporgendosi verso la lettiga per guardare il volto del morto. Dopo che la lettiga ebbe raggiunto le scale, tornò alla scrivania.

«Era lui?» chiese di nuovo; ripeteva la stessa domanda per ogni malato che vedeva passare, instancabilmente.

«No» rispose il Maestro, paziente. «Non disturbare, Nimrod. Te l’ho già detto.»

Il bambino ignorò la richiesta del Maestro: si mise a girare per il corridoio, controllando i volti dei morti e dei malati che venivano trasportati sulle lettighe; gli uomini della Confraternita lo ignoravano, anzi sembravano non accorgersi di lui, e così anche i malati, che spaventati guardavano le pareti e il soffitto del corridoio prima di essere inghiottiti dalle stanze. I loro occhi erano occhi di bambini, senza più memoria della strada di casa.

«Ma quando arriva?» chiese Nimrod tornando accanto al Maestro; era allegro e impaziente, e i suoi occhi traboccanti di vita erano l’unica vera fonte di luce in quel luogo.

«Non lo so» rispose il Maestro. «Potrebbero averlo già portato qui, ma in un altro piano.»

«No, no. È impossibile» rispose Nimrod. «Se verrà alla Torre, lo porteranno qui da me.»

«Come fai a dirlo?»

«Lo so e basta.»

Passarono lunghe ore senza che nulla di nuovo accadesse: i malati, moltitudine senza conforto, non accennavano a diminuire; i morti tornavano al piano terra e poi fuori dall’edificio, nel grande cimitero che andava formandosi sulla pianura.

Un’ora prima del tramonto, gli uomini della Confraternita accesero le fiaccole che stavano appese alle pareti delle stanze e dei corridoi; la luce dei fuochi si mescolava al rosso vivido del sole che si preparava a ritirarsi, come in un sogno. Dei passi pesanti giunsero dalle scale e quattro uomini comparirono nel corridoio: sulla lettiga che sorreggevano era disteso un uomo alto, che respirava a fatica e sembrava recitare qualcosa a mezza voce, forse delle preghiere. Il suo corpo, prima di essere fiaccato dalla malattia, doveva essere stato forte e imponente. Al seguito della lettiga c’era una bambina con un lungo vestito azzurro, i capelli raccolti in una treccia che arrivava a sfiorarle i fianchi. I suoi occhi erano lucidi e arrossati, come se avesse pianto a lungo.

Nimrod, speranzoso, guardò il volto dell’uomo e i suoi occhi brillarono; si voltò verso il Maestro e, prima che potesse domandare, l’uomo gli aveva già risposto annuendo in silenzio.

«È lui! È lui!» urlò Nimrod, entusiasta; fece una piroetta su sé stesso e un grande salto, come se il suo corpo non riuscisse a contenere la gioia. Gli uomini della Confraternita stavano per proseguire verso una delle stanze, quando si accorsero della bambina, che doveva averli seguiti senza permesso.

«Non puoi stare qui» disse uno dei quattro; la sua voce severa rimbombò dentro la maschera. «Torna giù.»

La bambina lo ignorò, come se non avesse neppure sentito; guardava Nimrod, che era poco più alto di lei.

«Chi sei tu?» chiese. Nimrod rimase a bocca aperta e sorrise, stupito.

«Lei… mi vede?» chiese, rivolto al Maestro.

«A quanto pare sì.»

«Perché riesce a vedermi?»

«Non lo so.»

«Forza, bambina» riprese uno dei quattro portatori. «Vai via da qui.»

«Dì loro di lasciarla» chiese Nimrod, euforico. «Per favore.»

«Me ne occupo io» disse il Maestro, facendo un cenno ai suoi uomini. «Andate pure.»

I quattro si scambiarono un’occhiata perplessa, poi portarono il malato nella stanza più vicina. Nimrod andò con loro saltellando da un piede all’altro, le sue braccia si agitavano senza sosta: il Maestro lo seguì con lo sguardo fino a quando lo vide sparire oltre la soglia, poi si rivolse alla bambina.

«Perché sei qui?» domandò.

«Quello è il mio papà» rispose lei. «Sta molto male.»

«E tua madre? I tuoi fratelli?»

«Non ci sono più.»

«Sei sola?»

«Siamo soli, io e papà.»

«Capisco» disse il Maestro, con un sospiro.

«Si salverà?» chiese la bambina.

«Non lo so. Nessuno sa nulla. Bisogna aspettare.»

«Posso aspettare qui?»

«Sì, certo.»

Il tempo scorreva senza fretta e il sole sembrò rallentare la sua corsa, mentre si avvicinava alla linea ondulata delle colline che delimitavano la pianura. Dopo lunghi minuti Nimrod tornò nel corridoio, con un grande sorriso sul volto.

«Gli ho parlato» disse, in estasi. «Non mi ha riconosciuto, ma si è accorto di me. Ne sono sicuro.»

«Come fai a dirlo?» chiese il Maestro.

«Lo so e basta.»

«Chi sei tu? Conosci il mio papà?» intervenne la bambina. Nimrod la guardò e i suoi occhi si accesero di una luce ancora più splendente. Sembrava che la gioia lo riempisse a ondate successive, ogni volta più alte ed intense, e il suo corpo esile si muoveva al di là del suo volere, come se stesse per traboccare a causa della troppa felicità.

«È tuo padre?» domandò, incredulo. «Allora anche tu porti il mio sangue.»

La bambina lo fissò senza riuscire a capire, poi Nimrod tornò di corsa nella stanza dove avevano condotto suo padre. Altri malati arrivavano, altri morti venivano portati via.

«Chi è quel bambino?» chiese lei.

«È il creatore di questo posto» rispose il Maestro. La sua voce era colma di stanchezza e rassegnazione.

«Davvero?»

«Sì. Davvero.»

Nimrod tornò ancora, allegro e sorridente.

«Ho osservato a lungo il suo volto, ed ora il tuo. Vi somigliate tanto» disse, intenerito. «Somigliate anche a me? Non ho mai visto il mio volto in uno specchio.»

«Sì. Un po’, forse» convenne il Maestro.

«Ma chi sei tu? Perché conosci il mio papà?» chiese la bambina, indispettita. Nimrod le rivolse un grande sorriso e poi fece un inchino di fronte a lei.

«Io sono Nimrod, figlio di Cam. Sono cacciatore e sovrano, il primo tra gli uomini a regnare su un’intera nazione, e tuo padre è la mia discendenza. È il figlio di mio figlio» disse, in tono solenne e divertito allo stesso tempo. «E tu sei l’ultima a portare il mio sangue, il nome della mia stirpe nel mondo. Sei la mia sorellina di un altro tempo.»

La bambina lo guardò a bocca aperta, come se fosse al cospetto di un prodigio, e poi sentì le lacrime salire improvvise a bagnarle gli occhi, perché seppe con certezza che Nimrod diceva il vero. Allungò una mano verso di lui e tentò di sfiorargli il volto ed il collo, ma le dita toccarono soltanto l’aria.

«Non piangere» disse Nimrod. «Non sciupare il tuo volto così bello.»

«Sei davvero…?» chiese la bambina.

«Sì. Ma non lasciare che io ti veda piangere» disse ancora Nimrod, e per la prima volta un velo di tristezza comparve sul suo viso, poi subito svanì.

Uno degli uomini della Confraternita uscì dalla stanza e si avvicinò alla scrivania, sfilandosi la maschera; aveva l’aria esausta, gli occhi persi nel vuoto.

«Come sta il mio papà?» chiese la bambina.

«Si sta riprendendo» disse l’uomo, rivolto più al Maestro che a lei. «Potrebbe essere un caso di guarigione particolarmente rapido, ha reagito subito alle cure. Si vede che è forte, ce la farà.»

La bambina sorrise e si asciugò le lacrime con la punta delle dita; Nimrod, accanto a lei, aveva lo sguardo sereno e assorto, come se contemplasse terre lontane.

«Meglio così» disse il Maestro. «E quando potrà andarsene?»

«Per sicurezza, lo terremo qui stanotte» rispose l’uomo. «Domattina potrà andare.»

«Hai sentito?» domandò il Maestro alla bambina, mentre l’uomo della Confraternita indossava nuovamente la maschera e rientrava nella stanza. «Domani tu e tuo padre potrete tornare a casa.»

«Sì» rispose la bambina, felice. Dopo un istante di silenzio, la voce di Nimrod arrivò alle loro orecchie; era la sua voce di sempre ma al tempo stesso sembrava arrivare da un altro pianeta, o da un futuro remoto.

«Presto la Torre sarà completata» disse, con aria sognante. «Allora la sua cima arriverà al cielo e tutto questo avrà fine, perché tutti noi saremo nella gloria.»

«Nimrod» disse il Maestro, in tono di rimprovero. «Quello di cui parli è già successo, te l’ho detto un sacco di volte. Hai costruito la Torre tanto tempo fa, hai raggiunto il cielo e la tua stirpe si è dispersa; il mondo è andato in rovina e si è diffusa questa malattia che nessuno sa come debellare. Tu sei rimasto qui a sognare il tuo passato, come se fosse ciò che ancora ti attende. È la condanna per la tua superbia, o forse è solo uno scherzo del caso.»

Nimrod lo guardò di sbieco, mentre la bambina li osservava senza capire e sentiva la paura farsi strada dentro di lei.

«Non dargli retta» le disse infine Nimrod. «È un vecchio matto, a volte straparla.»

La bambina cercò di fare un cenno con la testa come a dire che gli credeva, ma era troppo spaventata e il gesto rimase a metà, incompiuto.

«Fidati di me. Io ho creato questo posto, io l’ho sognato e io lo porterò a compimento. E nel mio sogno tu potrai essere tutto quello che vorrai.»

La bambina accennò un sorriso e annuì, stavolta con convinzione. La paura fuggì via dal suo cuore.

«Vieni con me» aggiunse Nimrod; cercò di prendere per mano la bambina, ma le sue dita passarono attraverso quelle di lei. Continuò a parlare, come se nulla fosse accaduto. «Andiamo a giocare sul tetto. Ti faccio vedere dove arriverà la cima della Torre, e sino a dove si estende la pianura assolata.»

«Fate attenzione» disse il Maestro, rivolto a Nimrod. «Non farla avvicinare ai bordi. Lei non è come te.»

Di nuovo, Nimrod lo guardò di traverso per qualche istante; scosse la testa e fece un gesto con la mano, come per invitarlo a non dire assurdità. Il Maestro chiuse gli occhi e spinse indietro la testa sino a posarla sul muro; subito un sonno leggero e accogliente scese su di lui, preparandosi ad abbracciarlo. Nimrod sorrise alla bambina e le indicò le scale in fondo al corridoio, che conducevano di sopra.

«Andiamo» disse. Lei ricambiò il sorriso e lo seguì: raggiunsero il tetto, dove gli operai stavano terminando la loro giornata di lavoro e riponendo gli attrezzi; i loro gesti erano immersi nella luce rossa del tramonto, irreale e bellissima. Parlavano tra di loro e non si comprendevano: le loro lingue si erano confuse tanti anni prima. Ciascuno di loro sognava di tornare a casa, o di fuggire in un paese lontano e senza nome, e non poteva spiegarlo con le parole ai suoi compagni, ma gli occhi di ognuno raccontavano lo stesso desiderio. Guidati dagli ultimi bagliori, imboccarono le scale e uno alla volta lasciarono la cima della Torre, stanchi e affamati.

Uno accanto all’altra, Nimrod e la bambina si misero seduti sul bordo del muraglione di occidente, senza che nessuno si accorgesse di loro, e insieme stettero a guardare il sole che annegava felice tra i profili dolci delle colline.

[in copertina: Pieter Bruegel il Vecchio, Grande Torre di Babele (dettaglio)]

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