Di lui, vi posso dire che era un ragazzo d’oro e il migliore degli amici.
Un eroe da bar, una leggenda di campari col bianco, un santo pane e salame.
Sentendo il suo nome, qualcuno storcerà il naso e dirà: uno dei tanti fuori di testa. Noi, a questo qualcuno, risponderemo: tu non sai che cosa siano l’amore e la santità dell’amicizia.

Quando lo vidi la prima volta eravamo due fagioli, lui sei anni e io cinque. In prima elementare, io per mano con mia madre, lui per mano con la sua. Grassottello, rosso come un irlandese, la faccia piena di lentiggini, i dentoni in fuori. Qualche giorno dopo, aveva già il suo soprannome per sempre: Tricheco, per via di ‘sti denti che gli sbucavano dai labbroni.

Passammo così cinque anni insieme e ancora tre alle medie. Non è che fosse scattato un incantesimo e fossimo diventati grandi amici. Si giocava insieme a calcio nel cortile della scuola, ci si vedeva il pomeriggio in bicicletta d’estate, si andava a pescare nei fossi.
Alle superiori ci perdemmo di vista. Io andai al liceo, lui al professionale. Io a Milano, lui a Pavia.
Ogni tanto, qualche pomeriggio d’inverno, ci vedevamo, per caso, al Bar del Muro o al biliardo e fumavamo una sigaretta o bevevamo una cosa. Il Tricheco girava in motorino con la ghenga di quelli col motorino. Io pedalavo in bicicletta per le strade di campagna o a piedi lungo i viali.
Cominciai a fumarmi le canne con un gruppetto di scannati che non valevano niente. Il Tricheco invece no, niente droghe: lo vedevi seduto in gelateria con una granita al limone in mano e il pacchetto di diana blu sul tavolino, pacifico e innocente.

Stavo con gente che mi reputava una bestia rara. Il fumo aveva quell’effetto, a parte brevi raptus di stronzate che mi facevano sentire vicino al gruppo, di isolarmi maggiormente. Il paese iniziava a mormorare – potevo sentirne lo stronzo brusìo e vederne il mutare lo sguardo al mio passaggio – che ero sulla strada per diventare un drogato, un giovane balordo. Siccome il paese ha sempre ragione, iniziai a farmi di coca, sempre col gruppetto di scannati che con me non c’entravano un cazzo. Oltre a fumare, sniffare e fare cagate, iniziai a leggere.

Un professore al liceo, un uomo alto e magro, gran fumatore di camel senza filtro, ci parlò una volta di poeti francesi dell’ottocento che si facevano di brutto anche loro, come dei senza speranza. Ci lesse poi alcune poesie. Poesie come questa:
Risate di bambini, discrezione degli schiavi, austerità delle vergini, orrore dei volti e degli oggetti di qui, siate consacrati dal ricordo di questa veglia. Era cominciata in completa rozzezza, ed ecco che finisce fra angeli di fiamma e di ghiaccio.
Piccola veglia d’ebbrezza, santa! non fosse altro che per la maschera di cui ci hai gratificato. Noi ti affermiamo, metodo! Non dimentichiamo che ieri hai glorificato ciascuna delle nostre età. Noi abbiamo fede nel veleno. Sappiamo donare la nostra vita intera tutti i giorni.
Erano petali che mi calavano dentro le orecchie fino alla grotta del cervello. Mi sembrò di aver trovato il mio destino.

A diciott’anni, iniziai anche a bere e a frequentare di più il Bar del Muro. Il Tricheco era lì, sulla soglia, a fumare una sigaretta, oppure seduto a sfogliare la gazzetta, sempre tranquillo, sempre lontano dalla droga. Un brau fiè: un bravo ragazzo, per il paese.
Quando iniziai l’università, ero veramente fuori come un balcone. La mia idiozia era pari alla mia arroganza. Volevo scrivere un libro di poesie e poi crollare. Anni dopo, ho imparato che alla gente delle tue poesie non frega un cazzo. Al tempo però non lo sapevo e mi sentivo la reincarnazione di Rimbaud. Rimbaud, povero Rimbaud.

Successe una cosa nella vita del Tricheco. La sua ragazza lo lasciò. Il Tricheco, magari all’inizio per gioco, iniziò a frequentare anche lui il giro degli scannati. Ma quello che all’inizio magari era stato solo un gioco, un diversivo per non pensare alla ex, divenne ben presto un’occupazione a tempo pieno.
Fu in quel periodo, diciannovenni, che diventammo fratelli, amici di sangue, nel gergo del giro: soci.

Diventammo inseparabili, seppure diversi come il giorno e la notte. Lui meccanico, io studente. Lui lavoratore, io fancazzista. Lui realista, io sognatore. Ci completavamo. Io ascoltavo lui smadonnare contro il lavoro e parlarmi di acidi delle batterie, paraurti da smontare, clienti che non pagavano. Lui ascoltava me parlare di Henry Miller, Pasolini, inveire e poetare come non mai sotto i cieli delle notti vuote di provincia. Iniziai a pensare che lui fosse il mio Santo, l’eroe del possente romanzo sull’hinterland che un giorno avrei scritto. Lui sarebbe stato il mio riscatto e il mio libro il suo. Il paese non avrebbe più detto di noi le cose brutte che diceva. Avrebbe pensato a noi come a due martiri, come angeli delicati che si erano caricati sulle spalle tutto il peso della noia del mondo e ne avevano tirato fuori un capolavoro commovente.

Bevevamo e ci facevamo come cavalli da corsa. Vivevamo il lungo sogno del sabato sera. Strafatti di cocaina ci confessavamo per ore, ci dicevamo cose che non avevamo mai detto neppure davanti allo specchio nella più completa solitudine. I tavoli dei bar, l’abitacolo della macchina, le panchine del parco: tutti confessionali della nostra enorme eccitata basilica.
Sfatti, col cervello capovolto, i vuoti di memoria e la tachicardia, il giorno dopo ci sentivamo al telefono promettendoci a vicenda che avremmo smesso. Tutte le nostre conversazioni telefoniche domenicali partivano con un: cazzo, ieri abbiamo esagerato e finivano con un: sabato prossimo un cazzo. Il sabato dopo però tutto riprendeva uguale. Il Tricheco finiva di lavorare e mi chiamava. Alle sei aperitivo al Bar del Muro. Ok.

Me lo vedevo arrivare sgangheratissimo con la sua vecchia Polo nera, parcheggiarsi alla cazzo schivando qualche vecchio in bicicletta che lo fanculava: Disgrassià!!
Scendeva dalla macchina con la sua aria da bestia innocente: un quintale per un metro e ottanta, i capelli rossi sconvolti, le lentiggini sulla faccia di ciliegia, le mani ancora sporche di grasso, l’eterna sigaretta tra le labbra e i dentonazzi di fuori come una sorta di rinoceronte preistorico sciabolato. Ed era una luce spensierata nel grigiore sudmilanese del paese.
Aveva una parola per ognuno: un Va dà via il cù! per il decrepito Gigi, Un Bella gnocca! per la Mara provocante quarantenne dei nostri sogni di ragazzi, un Cià fa un pinottino! per Piero il barista e dispensatore di umana saggezza. Elargiva sorrisi e calici all’intera platea. Era una santa perfomance più che una semplice vita.

Solo a vederlo si creava quel magico momento per un’occasione, per uno strappo alla regola, per una sbornia non premeditata. Un poeta tedesco lo avrebbe definito Der Fursten de fest, il principe della festa. Io lo chiamavo Il Santo del Bar.
Tre quattro pinottini o due campari col bianco. Intanto, la scimmia iniziava la sua scalata: partiva dal tallone e pian pianino si arrampicava, dispettosa e irriverente. Iniziavamo così la ricerca della coca. Avevamo i nostri agganci sparsi per i paesi limitrofi, dalle frazioni con ottanta abitanti fino ai casermoni dei quartieri dormitorio come Rozzano e Corsico. L’ultima spiaggia erano i senegalesi sui navigli, ma questo solo a notte inoltrata.
Dopo l’aperitivo, a cena, in qualche trattoria, a mettere fondo nello stomaco e a bere un brutto vino mosso che ti lasciava le labbra viola e che il giorno dopo cagavi verde scuro.
La nostra preferita, era la Trattoria della Madonnaccia, così chiamata perché davanti all’ingresso, un tempo, c’era stata una cappelletta con una madonnina. Si racconta che un bombardamento inglese la falciò via. Dal cumulo di polvere e di detriti emerse, davanti agli allibiti abitanti, la statuetta con la vergine intatta, solamente col volto annerito dal calore dell’esplosione. Fu chiamata Madonnaccia e così la trattoria che le sorse davanti.

Ci piaceva perché la proprietaria, la Sciura Nina, era scorbutica ma ci voleva bene, soprattutto a quell’irlandesone ciccione del Tricheco. Mi ricordi il mio cane, gli diceva.
Si mangiava benino. La Sciura Nina era la gran sacerdotessa delle polpette col sugo.
S’incazzava parecchio quando facevamo i complicati, così ci chiamava, quando le chiedevamo un vino fermo in bottiglia. Bevi questo nani, che l’è bon! e ci atterrava sul tavolo una caraffaccia di vinaccio.
Post un primo e le polpette col sugo, si apriva la sfilata della grappa per sturarci lo stomaco ingolfato.
Salutata con grandi abbracci la Sciura Nina, ripartivamo ubriachi per il pub Nannis e magari durante il tragitto ci scappava il primo tiro di coca.
Il pub Nannis era il reliquiario della gioventù del paese. Se ci andavi, eri segnato, marchiato come un drogato, un fuori di testa che era meglio vedere schiantato contro un palo una domenica mattina. Io e il Tricheco eravamo di casa al Nannis.

Era una tappa obbligata del sabato sera. Conoscevamo tutti: c’erano i relitti inabissati sul bancone, tossiconi alcolisti sui quaranta cinquanta sopravvissuti chissà come agli anni ’70-80; i giovani rampanti balordi pieni di super tennent’s, fumo, marjuana e sciarpe del Milan; un’ubriacona pazza e furibonda, grossa come un camionista, che si chiamava Tina ma che tutti chiamavano l’Unna; Nanni, il proprietario, un angelo paziente, che forse si era rotto i coglioni di tutta ‘sta fauna malata che gli affogava il locale ma che non ce lo diceva mai. Poi c’era Katia, una ragazza rossa come il fuoco che amava il cazzo, i cubalibre e la cocaina ed era fuori ai livelli di un Jimi Hendrix, solo che lei la chitarra non la sapeva suonare. C’era Nitro anche, un bestione beone e manesco, che ogni tanto lanciava perle di saggezza per il mondo, come: Ci vorrebbe un re buono!
A volte, al Nannis, avevi la sensazione di starci bene nella vita; altre volte, ad aver avuto una pistola, prima l’avresti usata contro quella massa di rovinati e poi contro di te.
Al Nannis bevevamo ancora una grappa e ci facevamo una botta in bagno. Il Nannis poteva bruciare pure ora. Milano era la meta, ma più di ogni altra cosa era il breve viaggio, una ventina di chilometri, che ci separava dalla città a farci felici.
Era durante il viaggio, sulla vecchia Polo nera, che tra me e il Tricheco pulsava fuori quella fratellanza santa d’amicizia che ci rendeva unici nel cuore della notte e faceva sparire per un attimo la bastarda solitudine d’essere al mondo. Forse la parola più adatta per descrivere quei momenti è comunione. Tiravamo fuori la nostra vita, la srotolavamo ed avevamo un’anima disposta ad accoglierla in pieno. Non un giudizio temevamo, non una parola indelicata ci sfiorava, non uno sguardo annoiato ci aspettava.

Ed era sempre nei nostri brevi viaggi solitari che sulla faccia del Tricheco, smessa per un attimo la maschera gioconda, vedevo la ferita, il segno del suo dolore inguaribile.
Milano ci accoglieva come sempre, balordamente stuzzicante di luci al neon, semafori, traffico, venditori di rose, ragazze, ragazzi, ubriachi, tosti, marocchini, marciapiedi, parcheggi a pagamento, auto in doppia fila pulsanti quattro frecce, bottiglie di becks vuote rotolanti: le storie sinistre e gli amori della città.
Avevamo i nostri posti fissi, i nostri locali affezionati. Forse era perché ci mancava il Bar del Muro e volevamo un posto tranquillo, dove tutti ci salutassero, ci sorridessero. In fondo, eravamo due pellegrini di provincia in visita a un santuario.

Uno di questi posti era il Trentatrè. Posto tipo discopub, coi tavolini bianchi moderni, il bancone bianco moderno, gli sgabelli bianchi moderni. Ikea insomma.
Il proprietario si chiamava Marcello, un bel pelatone di quelli di una volta, e tutti lo chiamavano Zio, perché fondamentalmente era lo Zio di tutti. Era matto, cinquant’anni, trascorsi strani in Thailandia, qualche figlio nel mondo, occhi azzurri resi quasi trasparenti da tutto quello che avevano visto. Naturalmente, ci adorava a me e al Tricheco.
Una voce matta di donna ci salutava, superando la musica: “Uèèè bestiacceee!!”
Era Sara, la barwoman.
Immaginate una sirena acrobata, mettetela dietro un bancone lungo otto-nove metri, circondatela di facce di stronzi, di fighetti, di scoppiati come me e il Tricheco: pendevamo tutti dai suoi fianchi, da quei suoi fianchi magri e rapidi di ragazza bionda, alta – una valchiria del colore del grano – che si muovevano guizzando energici, e dalle sue braccia snelle e muscolose, impegnate in una decorativa lotta con le bottiglie come fossero dei coltelli volanti.
Il Tricheco ne era innamorato, con una tenerezza da farti sembrare cinico un bacio perugina. Era un amore di bambini il suo. Quando la vedeva, i suoi occhi si facevano allegri.
Serate che ci accappottavamo, ridendo, bevendo grandi cuba libre in bicchieri di vetro colorati, facendo i mattoidi, cadendo per le scale (una sera quasi mi ruppi una costola). Alle due, il Trentatré chiudeva. Noi si aiutava a mettere a posto e tirar giù la cler, guadagnandoci un grazie dello Zio, un bacino della Sara e uno shottino di vodka alla menta.

Così ce ne andavamo, salivamo sulla Polo nera, la notte ancora giovane aveva bisogno di noi.
Mettevamo un nostro disco masterizzato dei Red Hot del quale nessuno dei due conosceva il titolo:
c’era scritto solo, in pennarello rosso, RED HOT. Era il nostro disco, la nostra rotonda sul mare buio e luccicante a intermittenza della Milano notturna.
Andavamo sui Navigli. Era pieno di covi per comprare una busta scadente e bere una birra. C’era un esercito di senegalesi che faceva questo lavoro, tipo formiche della mala, crumiri, manovalanza balorda, caporalato criminale. Uno di questi covi era il Ferro di cavallo. Si andava lì spesso, scartando gli ubriachi per strada dondolanti e bercianti, le gang di cinegri aggressivi con il mito di Tupac Shakur, le coppiette di stronzetti che rincasavano spaventati: tutti gli avanzi della cena navigliesca spendereccia disperata milanese. Uno spettacolo apocalittico. Io e il Tricheco lo attraversavamo consapevoli di essere migliori di tutta quella merda lì pronta per la fine.
Al Ferro di cavallo nove su dieci c’era Said, con le palline di coca in bocca pronto a ingoiarle in caso di cazzi amari nelle persone delle forze dell’ordine. Pronto anche a morire quindi: se la pallina ingoiata a contatto coi succhi gastrici si scioglie, puoi dire addio a Said, la famiglia in Senegal, il cous-cous, il ramadam e l’uccello grosso e circonciso.

Preso quello che dovevamo prendere, tracannata la birra, ruttato, ce ne scappavamo via.
Ora la strada era deserta. Scivolavamo lungo la statale, i lampioni altissimi ai nostri fianchi, grandi silenzi, i semafori lampeggianti, sembrava di navigare un fiume calmo. Sarebbe stato l’ideale per il finale di un qualche film, con un sottofondo di pianoforte. I nostri discorsi erano tristi, perle malinconiche tra noi. Io di solito citavo qualche poesia e il Tricheco, caro figlio anima pura, mi ascoltava e sembrava commuoversi pure lui. Era anche il momento del sogno Santo Domingo: volevamo andarci a vivere, aprire un baretto sulla spiaggia, abbronzarci, mangiare l’aragosta e dimenticarci la nebbia. Ci immaginavamo lì, belli e felici, davanti al mare.
Amici per sempre.
Le nostre nottate finivano da Cesare, un motociclista ex eroinomane che aveva fatto della sua casa un rifugio per scoppiati che non potevano andare a dormire. Era anche una bisca. Quelli che avevano ancora venti o cinquanta euro in tasca, se li sputtanavano a poker. ‘Sta moda del poker a me era sempre stata sui coglioni. Invece al Tricheco piaceva. Lo guardavo giocare, mentre in silenzio bevevo birra da un grosso lattinone che il Cesare, quello stronzo sdentato, mi vendeva a tre euro l’una.
Uscendo dal Cesare, guardavamo arrivare l’alba grigia farsi strada nel cielo, sentivamo gli uccellini chiacchierare tra loro e scoprivamo che il sogno del sabato sera era finito. Ci salutavamo sotto casa mia con un abbraccio.
Andò avanti così per qualche anno, poi mi innamorai di una che mi spezzò il cuore. Decisi di andarmene a Roma a finir l’università. Quando lo dissi al Tricheco, lui non rispose niente. Mi sembrava di abbandonarlo e mi sentii in colpa da morire.
Quando tornavo, per Natale o per Pasqua, ci vedevamo ma nulla era più come prima. Non eravamo più fratelli: io me ne stavo nel mio esilio universitario fatto di libri e grandi solitudini a Roma, lontano anni luce dal paese; il Tricheco solo anche lui, in balia dei balordi, del poker, dell’alcol e della coca senza più un’anima con cui confidarsi.
Finita l’università, tornai al paese, mi misi insieme a una ragazza e andai a vivere con lei. Era una persona regolare ora: niente più coca, niente più Trentatré, niente più Ferro di cavallo, niente più albe grigie fuori dalla casa del Cesare. Il Tricheco non lo vedevo più. Quelli del giro dicevano che usciva solo per andare a farsi, a bere e giocare a poker in qualche covo. Era sempre peggio, mi dicevano.
Un cazzo di tossico, mi dicevano. Io non dicevo niente, ingoiavo il sangue che mi veniva, reprimevo le lacrime per il mio Santo Tricheco, anima pura.
Una sera lo rividi, così, per caso. Ero al Bar del Muro a bere una grappa e lui entrò, non più accompagnato dall’aura festosa del passato, quando bastava sentirlo parcheggiare perché prendesse vita una bevuta festosa. Lui mi sorrise, con quei dentoni da castoro. Ci abbracciammo. Non gli dissi delle voci che giravano su di lui. Sicuramente le conosceva già. Parlammo, invece, dei vecchi tempi, come due reduci. Parlammo dello Zio, matto come un cavallo, della Sara stupenda sirena, delle polpette della Sciura Nina quante cazzo ne abiam mangiate… Fummo felici per un’ora.
“Sentiamoci però!” gli urlai quasi, mentre ci salutavamo. Il Tricheco sorrise piano, senza mostrare i denti.
Fu quella l’ultima volta che lo vidi, il mio ragazzo d’oro, il mio Santo del bar, mio fratello, l’anima grande in ascolto. Le preghiere di una parte del paese vennero ascoltate: una notte, tornando da qualche covo dove era andato a intafanarsi a pippare e bere come un pazzo, si sfrondò contro un palo della luce. Ancora un centinaio di metri e sarebbe arrivato a casa.

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