Promiscuità fotografica e recensioni obsolete: intervista a Paolo Buatti.

Ciao Paolo, parlaci un po’ di te e del tuo progetto Interno in Bakelite.

Ho creato Interno in bakelite nel 2012, sentivo la necessità di dover mettere ordine tra tutto il materiale che producevo, di selezionare e scremare l’interessante dal non. L’informalità del blog mi ha incuriosito, ho iniziato quindi a rilasciare questo flusso di immagini e di considerazioni sugli apparecchi fotografici. La fotografia ha un ruolo di primo piano nella mia vita. A volte penso che l’entusiasmo che mi muove è pari a quello dei “fotografi della domenica”. Condivido con loro anche il rapporto memoria – fotografia, se prendiamo per buona la descrizione di Calvino ne L’avventura di un fotografo in cui dice che «[…] solo quando hanno le foto sotto gli occhi sembrano prendere tangibile possesso della giornata trascorsa». Anche nel mio caso l’immagine gioca con la memoria, a volte la sostituisce, altre volte la distorce o ne esce distorta. Tutti i miei interessi hanno a che fare con il visuale e sono di conseguenza fortemente influenzati dalla mia ricerca fotografica. Quello che studio con la fotocamera provo a riproporlo nei documentari o nei cortometraggi che realizzo.

Come è nato il tuo interesse per la fotografia e perché hai scelto la pellicola?

Andando a ritroso nella concatenazione degli eventi, posso dire che ho iniziato a scattare grazie alla caduta dell’URSS. I russi baffuti riversarono sui cigli delle nostre strade vagonate di cianfrusaglie esotiche sovietiche, mio padre (come molti all’epoca) acquistò una Zenit 122. Qualche tempo dopo chiesi di poterla usare, era già ferma da un po’. Fu quella la mia porta per la fotografia: manuale, a pellicola, con caratteri in cirillico da decifrare. Un Helios 50 mm e uno Jupiter 200 mm sono stati il mio parco ottiche di rodaggio. La pellicola era inevitabile date le circostanze ed è stata profondamente formativa. Nonostante usi volentieri il digitale, ancora oggi le mie esperienze di scoperta avvengono maggiormente nel campo dell’analogico. La mia curiosità mi spinge verso le basi, il mio desiderio è di arrivare a cimentarmi con le tecniche antiche di ripresa e di stampa.

Il risultato impressionato su pellicola combacia sempre con la composizione ideata?

Personalmente associo la fotografia analogica ad una attività artigianale. Specialmente se si è coinvolti in prima persona in tutte le fasi, dallo scatto alla camera oscura, sul risultato influiranno una quantità di variabili tale da ostacolare spesso questa corrispondenza esatta tra inquadratura e stampa. Non sempre questa divergenza è un male. È una questione prettamente tecnica: chi ha un approccio “alla Ansel Adams”, per intenderci, farà di tutto per perfezionare ogni singola fase, tendendo il più possibile a questa corrispondenza. Personalmente accetto l’errore e spesso ne sono attratto. L’imprevedibile, o meglio dire l’imprevisto, si insinua nel processo e lo rende fallimentare in sé, ma unico e interessante. Mi capita di ripescare dopo anni alcuni fotogrammi che inizialmente avevo scartato perché “sbagliati”, di rivalutarli nella loro unicità estetica e nella loro irriproducibilità. Ovviamente erano lontanissimi dall’immagine che mi ero prefigurato mentre premevo il pulsante dell’otturatore, ma il caos in quelle circostanze ha lavorato a mio favore.

Da poco mi sono avvicinato alla fotografia pinhole comprando una macchina progettata da dei ragazzi di Praga e stampata in 3D. So che hai progettato e costruito anche tu una pinhole grande formato, ci racconti qualcosa a riguardo? Gli hai dato un nome?

Ho sempre fantasticato su questa tecnica, il primo post del blog è stato proprio un autoritratto fatto con una pinhole. Volevo partire dal piano terra. Negli anni ho maturato lentamente l’idea di progettarne una, poi ho avuto la fortuna di costruirla assieme ad una persona per me speciale. Il progetto si basa sull’idea di Roger Foote, la costruzione è stata l’ultimo sforzo artigianale di Francesco Diletti. Ci sono voluti circa due anni di tentativi: da matematico e scacchista ha trovato molte difficoltà a lavorare sui miei disegni, e nel frattempo aveva compiuto novant’anni. Dopo averla completata gli ho fatto un ritratto. È stata una delle mie prime foto a pellicola piana, questa pinhole mi è servita proprio per iniziare a sperimentare sul grande formato. Senza otturatore né mirino. Non ho ancora deciso il nome, nonostante siano passati anni e io sia visceralmente legato a questa fotocamera. Una risposta potrebbe essere F350, che indica il valore del diaframma equivalente al pinhole oltre all’iniziale del costruttore. Apprezzo la storia degli oggetti, il loro vissuto li rende unici ai miei occhi e questo apparecchio ne è un esempio.

Sul tuo blog c’è una sezione dal titolo Recensioni obsolete che adoro, mi ha dato la possibilità di conoscere più a fondo dei veri gioielli della fotografia analogica. Qual é la macchina fotografica a cui sei più legato? Perché? Ci puoi raccontare la sua storia?

Ho iniziato a collezionare vecchie fotocamere a pellicola per curiosità, volevo capire le differenze tecniche e di costruzione, le soluzioni ergonomiche, lo stile. Così ne ho iniziato a scrivere nelle Recensioni obsolete dei consigli per gli acquisti totalmente anacronistici. Con la prima biottica Rolleiflex la sensazione è stata subito quella di avere tra le mani un apparecchio “perfetto”. Il sistema TLR offre il vantaggio di un mirino più che luminoso, il gruppo ottico è di altissimo livello ed il design è impeccabile, iconico. La gestualità che queste macchine richiedono fa pensare quasi a un rituale: si fa avanzare la pellicola con la leva laterale, si impostano tempi e diaframmi con i pollici (o pizzicando una leva con la mano sinistra) e infine si abbassa la testa per inquadrare e scattare. Non ha la presunzione del banco ottico e neanche il basso impatto e la trasparenza delle telemetro. Ho acquistato per primo un modello T, tedesco ma destinato al mercato francese, e da subito ho iniziato a portarlo con me anche all’estero. Nel giro di qualche anno questa fotocamera, che ne ha più di 50, è tornata a viaggiare: due volte in Russia, una volta negli Stati Uniti, poi Francia, Ungheria, Germania e Romania. Molti tra i miei scatti migliori sono quadrati, il quadrato Rolleiflex. Io li interpreto come il segno che la mia venerazione incondizionata è stata premiata.

Hai un fotografo preferito o che abbia ispirato il tuo modo di fotografare e guardare il mondo attraverso il mirino?

Sento che il mio percorso fotografico non è così lineare, sono serviti anni per definire quello che sto facendo ora e probabilmente tra qualche anno scatterò in un altro modo. Me lo auguro. Negli ultimi anni ho attinto da fotografi con caratteristiche spesso diverse tra loro; apprezzo moltissimo Alex Webb per la composizione e le ombre, Pentti Sammallahti per la delicatezza, Natela Grigalashvili per l’atmosfera e Gueorgui Pinkhassov per l’audacia. Forse la direzione verso cui tendo oggi può essere paragonata alla risultante di più vettori che puntano in direzioni diverse. Questi fotografi sono i miei vettori.

Ti va di consigliare ai nostri lettori un libro, una mostra o un documentario sulla fotografia che ti ha particolarmente colpito?

Una lettura estremamente interessante è La camera chiara di Roland Barthes, per l’analisi di questa che lui chiama “nuova forma di allucinazione”. Nasce qui la distinzione tra studium e punctum, per indagare su cosa ci ferisce in una fotografia. Dopo aver parlato così bene della Rolleiflex non posso perdere l’occasione di consigliare il documentario Finding Vivian Maier, una storia che mi sembra ancora oggi incredibile e che mi ha fatto molto riflettere sulla dimensione intima che la fotografia ha avuto nella vita di questa bambinaia. La mostra che mi ha colpito di più è stata l’antologica di Pentti Sammallhati, Qui, altrove. In realtà l’ho scoperta solo dopo la data di chiusura, quindi sto scrivendo di qualcosa che non ho mai visto, ma è l’unica mostra che oggi vorrei vedere realmente. Per rimediare acquistai il libro omonimo che reputo un capolavoro.

Cosa ne pensi del successo che la fotografia analogica sta vivendo in questo momento?

Sicuramente valuto positivamente tutte le conseguenze di questo riavvicinamento all’analogico, come la possibilità di reperire facilmente e a prezzi accessibili i materiali. Allo stesso tempo però non posso far finta di non vedere che gran parte di questa “nuova ondata” sia dettata semplicemente da motivi economici, una nuova possibilità per molti di fare affari. Quello che ha determinato questo ritorno alla pellicola non è sicuramente un percorso di ricerca.

Stai lavorando ad altri progetti anche non legati alla fotografia analogica?

Nel 2019 ho portato a termine due progetti in video a cui tenevo particolarmente, il documentario Dia Silla e il cortometraggio Il tempo d’amore di un medico. Credo che in Dia Silla sia palese la mia formazione fotografica, l’idea futura è quella di rimodellare il materiale di questo documentario e farlo diventare una installazione artistica, combinando proiezioni multiple, stampe e un ambiente sonoro. Ultimamente mi interessa molto il connubio tra immagini e musica elettronica, credo che proverò a sperimentare maggiormente in questa direzione. Per quanto riguarda la fotografia invece ho già pronta una mostra di scatti realizzati con le mie due Rolleiflex, che a causa dell’emergenza sanitaria è stata rimandata. L’augurio è quello di poterla proporre quanto prima.

Grazie a Paolo per questa stupenda intervista.

Trovate Interno In Bakelite ai seguenti link:

https://www.paolobuatti.it/

https://internoinbakelite.wordpress.com/

https://it-it.facebook.com/internoinbakelite/

L’immagine di copertina compare per gentile concessione di: Agnese Gambini  (agnesegambini.it)

NESSUN COMMENTO

LASCIA UN COMMENTO