Il bello della fotografia è il suo rapporto con il tempo: si adatta perfettamente ed allo stesso tempo lo racconta. In alcuni casi la fotografia si incrocia con la società per studiarne e documentarne gli usi e i costumi.

Oggi abbiamo con noi Simone Bardi, fotografo e antropologo.

Dietro al fotografo ed all’antropologo: chi c’è? Chi è Simone?

Simone è il risultato di un percorso tortuoso, sia a livello personale che a livello professionale. Fin da piccolo sognavo un lavoro che mi rendesse libero e studiare antropologia, per occuparmi poi di antropologia visuale, mi ha dato una buona parte di questa libertà. La libertà di interpretare il mondo in modo diverso dai più. E una volta che ti si svelano certe possibilità di guardare il mondo e la sua umanità è impossibile rinunciare ad analizzarle, diventa automatico. Difficile dunque dividere il Simone persona dal Simone antropologo, direi impossibile; la fotografia è solo un mezzo invece. Magari domani smetto di essere fotografo e film-maker, ma non potrei mai smettere di essere antropologo. Un antropologo è antropologo 24 ore su 24.

Come mai la scelta di raccontare la società per immagini? é stata una scelta casuale o c’è un motivo specifico per cui hai deciso di valorizzarne l’aspetto più estetico?

Scattavo e riprendevo già prima dei miei studi sulla società, poi piano piano i due aspetti si sono fusi, studiando antropologia dell’arte e antropologia visuale. Poi studiando alla Scuola di Cinema Documentario Etnografico si è chiuso il cerchio. Penso che lo studio della società debba passare per gli aspetti più emotivi e ricercare nuovi significati attraverso lo studio dei sensi. L’estetica la fa da padrona. È importante precisare che non intendo studiare la società. Il mio sguardo, o meglio i miei sensi si poggiano sul micro, non mi interessano i massimi sistemi, le macro-spiegazioni e le teorie universali. Mi piace avvicinarmi a comprendere come una persona diversa da me possa interpretare il suo mondo, il mio mondo e come costruire qualcosa di interpretabile insieme. Siamo in piena ermeneutica.

L’approccio della tua “antropologia visuale” è più di ricerca o più dimostrativo? In particolar modo nella tua antropologia fai largo uso del documentario. Quali sono gli aspetti su cui vai maggiormente a indagare?

Sincero? Non so bene. Direi entrambi. Qualche mese fa un collega antropologo e performer mi ha detto che a volte sono molto artista e mi dimentico dell’antropologia come strumento di indagine. Non ho capito se fosse un complimento o una critica. Forse non mi importa. Alcuni miei lavori appartengono al genere della videoart o alla fotografia surrealista più che al documentario classico, ma come si sa l’antropologo è una persona che studia con altre persone (e non studia le persone!), quindi occorre guardare anche la produzione artistica stessa come frutto del lavoro di una persona, persona che però è anche antropologo. Comunque, restando sulla tua domanda, la mia antropologia visuale è slegata, sconnessa, senza paletti, almeno mi piace vederla così. Ovvio che per alcune produzioni occorre condurre una ricerca rigorosa di etnografia e una raccolta dati precisa.

Quali sono, secondo te, le sfide con cui si confronta un documentarista? in che modo ad esempio decidi di affidare una analisi alle immagini piuttosto che al video? E quali sono i limiti? Hai mai incontrato difficoltà che ti hanno impedito di raccontare qualcosa? Quanto queste difficoltà possono incidere sul tuo lavoro?

Quando lavori sui progetti indipendenti, soprattutto nelle fasi iniziali, ti senti libero. È il dominio della sperimentazione. Quando lavori su commissione può essere complicato. Nel pratico, ti cito il caso di una produzione inglese di documentari sul Corno d’Africa, una distribuzione Netflix UK e Amazon Prime per cui ero stato ingaggiato come montatore, sceneggiatore, sound designer e colorist ma anche antropologo visuale di formazione.

Ottimo, finché non mi venne detto di tagliare diverse scene che mettevano in cattiva luce la Somalia e Djibouti, presenza di militari ovunque, scorte, litigi della troupe con i locali. Questi aspetti non erano da raccontare, tant’è che non volli continuare la collaborazione dopo alcuni episodi. È frustrante, ma in generale la fotografia e il video ti danno una libertà unica. Sono il mezzo per raccontare tanto l’esistente quando l’inesistente. Si pensi ai film di David Lynch, è un surrealismo che dialoga con il nostro inconscio e i suoi quadri, poi raccontano più delle emozioni e dei sensi umani di quanto non facciano certi reportage fotografici documentari.

Non abbiamo limiti con i media visuali, i limiti sono nella nostra mente magari, come quando vogliamo distinguere tra cinema di fiction e cinema documentario, foto di reportage e foto surrealista. Appena ci si dimentica degli schemi, è lì che nasce la fascinazione e l’autentica personale magia.

In che modo un antropologo si approccia ad una nuova analisi? Ricordo di aver letto, ad esempio, di  studiosi che per amore della ricerca sono arrivati a condividere culti misterici con alcune tribù. Esistono ambienti che senti più vicini e che racconti con più facilità o, al contrario, situazioni con cui hai difficoltà di approccio?

La mia prima ricerca in Marocco, durata un anno ma ancora in corso mi avvicinò alle credenze Sufi e – da ateo – dico che se mai dovesse capitare di convertirmi a una religione, questa sarebbe l’Islam. Sempre perché amo le contraddizioni e le persone che si contraddicono ti dico anche che è l’underground l’ambiente della mia seconda ricerca che si concentrava sulle modificazioni corporali, le performance estreme e gli ambienti dei rave party. Affrontando e stando immersi in situazioni estremamente differenti ne guadagniamo, scopriamo quanto ognuno di noi possa essere eclettico e opera d’arte di sé.

Di recente abbiamo avuto a che fare con una situazione che nessuno, forse, si sarebbe mai aspettato: la quarantena. Come credi che abbia influito sulle abitudini delle persone? In campo fotografico soprattutto si sono registrati due approcci fondamentali: da una parte la ricerca della spettacolarizzazione, ad esempio le grandi città deserte o le file davanti agli ipermercati, dall’altra la riscoperta di una intimità, spesso domestica, che in molti avevano dimenticato. Anche tu sei stato promotore di un progetto fotografico: ti va di parlarcene?

Si chiama Quarantene l’installazione fotografica (non mostra quindi) in cui lo spettatore è costretto a tornare in gabbia ma questa volta letteralmente; gabbia in cui sarà circondato da foto, di professionisti e amatori, che mi hanno voluto mandare qualcosa della propria quarantena. La raccolta dà vita a un mosaico di esperienze, condizioni, situazioni, persone e luoghi: ogni pezzo del mosaico è fondamentale per la costruzione del totale.

Sul come abbia influito invece sono abbastanza pessimista (o realista magari): penso che con la scomparsa della pandemia torneremo a i nostri mediocri e normalissimi obiettivi quotidiani, pronti a schiacciare il debole e pronti a piegarsi al potente. Ovviamente questo in generale. Penso anche che qualcuno cambierà davvero vita, che metterà in moto qualcosa di nuovo, proprio a partire da questa esperienza. È in condizioni di emergenza che nasce l’urgenza.

Oggi con i nuovi media le persone hanno molto più accesso alla tecnologia, si parla addirittura di “natività digitale” riferendosi ad una generazione di giovanissimi che iniziano da subito a produrre contenuti. Quanto credi abbia importanza la formazione nel processo di creazione visuale?

Credo che sia dalle difficoltà di reperimento di mezzi e risorse invece che nasca la creatività. Ora con 1000 € hai accesso a strumentazione con cui iniziare a produrre a livello professionale qualcosa, ma poi se non hai idee ci fai poco. Forse poter accedere così facilmente al tecnico svuota e fa dimenticare l’importanza di una formazione e il bisogno di un eclettismo intellettuale. Tutti youtuber e pronti alla fama facile ma se alcuni di loro sono molto bravi altri stanno comunque facendo scoregge e scherzi telefonici davanti alla webcam. Ognuno è libero di fare naturalmente quello che crede. È un mondo che non mi ha mai attratto, quello social: lo vedo come mezzo, non come fine, ecco. Tant’è che il mio canale YouTube e il mio Instagram li ho aperti solo ora per un concept store e art studio che aprirò a fine agosto, figurati.

Penso che siano le idee a guidare il mondo: quando abbiamo un’idea forte e in cui crediamo i social e la tecnologia sono solo mezzi ed estensioni di noi utili alla costruzione e visualizzazione concreta di quell’idea.

Parlando di formazione: tu sei direttore artistico di un centro sperimentale di arti visive in cui si lavora anche con i nuovi media. Realtà aumentata, narrazioni non lineari, performance.  In una chiacchierata ricordo chiaramente di aver parlato di Stelarc e delle sue body modification. Secondo te quanto è stretto il rapporto tra arte e performance? Le fotocamere, ad esempio, possono essere considerate prolungamenti dei nostri sensi? In che direzione sta andando l’arte?

Ecco, appunto, sì.

Cioè, no.

Le fotocamere penso siano il prolungamento dei nostri arti soltanto, non dei sensi. Anzi sono una deformazione dei nostri sensi!

La performance è un settore nel quale sto entrando in punta di piedi, per alcuni anni ho scritto performance per altri – che poi non si sa mai quanto siano in effetti per altri e non per te stesso – ora inizio a sentire necessità di mettere in gioco il mio di corpo e sono ossessionato dal tempo da sempre, come fobia e come tema di riflessione intellettuale. Sto scrivendo e strutturando una performance su questo.

La performance e l’arte non hanno a che fare solo con le spazialità e il corpo di tessuti e sangue ma con le emozioni, lo scorrere del tempo, la vocalità e mille altri aspetti: la performance è un mezzo dell’arte. Le vere opere siamo noi stessi, prima uno se ne rende conto, meglio è.

Lavorando con ETNOFILMfest ho chiacchierato con Fernando Arrabal, che non ha bisogno di presentazioni, direi, e ricordo che molte di queste idee in me sono nate da quelle conversazioni, avvenute davanti a un piatto di spaghetti o un gelato, non su un palco col microfono. Anche quelle al ristorante erano performance, nel suo caso ad alto contenuto artistico.

Alcune persone, ed è il caso di Arrabal, sono arte. Quando certe persone poi producono qualcosa quel qualcosa finisce inevitabilmente per divenire arte. Sono centinaia i pittori che sanno riprodurre fedelmente La Gioconda o un Van Gogh o un Picasso. Allora perché loro sono “solo” bravi e non sono Leonardo, Van Gogh o Pablo Picasso?

In passato si diceva che l’arte era lo specchio della società, questo concetto dalla rivoluzione industriale è stato largamente criticato. Cosa dovrebbe raccontare oggi l’arte? In particolar modo si assiste ad una maggiore  “spettacolarizzazione” della vita quotidiana ma emerge una tendenza al vintage, al tornare indietro o in qualche modo a reinterpretare il passato. Credi che si possa trovare un punto di equilibrio o potrebbe essere lo squilibrio verso una delle due tendenze a ravvivare la situazione?

Sono per gli squilibri io: sempre. Per le rivoluzioni. Amo il bianco e nero ma mi piace giocare con virtuale e la realtà aumentata.

Preferisco scattare a pellicola ma sono un vero nerd del digitale. Insomma, se abbiamo un passato e un futuro perché non farli scontrare? Perché provare a conciliarli? Mi piace pensare di potere distruggere per vedere cosa succede dopo. Mi piace ricordare e reinterpretare il passato, magari, per immaginare il futuro ma adoro anche pensare che passato, presente e futuro, tanto come esistenza e come tecniche artistiche, siano tanto connessi quando contingenti.

La messa in dubbio, anche di sé, a qualcosa porta. Meglio o peggio sono solo giudizi e non mi appartengono.

Spero di essermi spiegato… Ma non troppo.

Ultimamente molte testate fotografiche propongono servizi riferiti al passato: in particolare vengono proposti e rianalizzati molti movimenti culturali, vorrei ad esempio citare alcuni servizi di Vice/Noisey sugli skater o sulle sottoculture. Credi che oggi ci sia una “scena”, una sottocultura, un movimento che valga la pena di essere raccontata?

La parola “sottocultura” è pessima, la metto insieme al concetto di razza (che è una ed è quella umana). Abbiamo tante forme di umanità, ecco…quello sì, ma “sottoculture” no.

Abbiamo movimenti e tendenze, sì. Ogni persona è degna di essere raccontata, figuriamoci gruppi umani e movimenti! Io sono tanatofobico, mi spaventa la mia mortalità in modo irrazionale e mi rende nervoso e ansioso solo il pensiero di non poter leggere tutti i libri che l’umanità ha scritto, l’idea di non riuscire a conoscere tutte le persone del pianeta, di non poter visitare ogni angolo del globo. Non avremo mai il tempo di conoscerci tutti. È affascinante e doloroso per me. Non ti ho risposto, mi sa…

Diciamo in sintesi che abbiamo la possibilità di raccontare un’infinità di storie umane, alcune per noi più ricche di significato altre meno sicuramente. A volte è meglio appoggiare il mezzo, godersi il racconto e tenerlo per sé. Altre volte sentiamo il bisogno di raccontarlo in forma artistica. E sia… Se per noi vale la pena, soddisfiamo questo bisogno e amen.

Non possiamo che guadagnarci qualcosa, in termini spesso di relazione umana.

Ultima domanda, un grande classico: hai progetti per il futuro, come si evolveranno la tua ricerca e la tua produzione?

Al momento lavoro per l’apertura di Eclissi, un concept store e uno studio artistico – produzione foto e video, grafica e web design, uno store che sarà anche in realtà aumentata, molto tecnologico come contesto, unitamente a uno store con vinili e libreria; sarà in centro a Reggio Emilia e ci saranno diversi artisti ospiti con i quali collaborerò per produrre prodotti nuovi.

Dall’altra parte continuo a collaborare con la mia associazione di arti sperimentali, Chaos, e con Teatro ad Alto Rischio ed Etnofilm, entrambe di Padova, dirette dall’amico e collega Fabio Gemo; insieme, abbiamo tante idee, stiamo cercando di unire le forze e di sperimentare nuove sinergie. Cercare di varcare i limiti tra performance, videoart, filmmaking, fotografia, videomapping.

Eclissi è un’attività di lucro. I progetti più sperimentali rientrano nel no-profit delle associazioni Chaos e TAR, così da avere più possibilità di manovra, dove poter sperimentare senza dover render conto a nessuno. Dal 2021 ci saranno diverse novità in questo senso. Ho bisogno di questo!

Alla domanda di come ti è venuta l’idea di Quarantene ho risposto “ero curioso”. Alla domanda di come mi è venuta l’idea di Eclissi rispondo “mi sono svegliato una mattina, non sapevo cosa fare ma avevo questa idea in testa”. La settimana dopo il progetto era pronto e a fine agosto inauguro. Ricordo la mia ossessione per il tempo… non posso stare fermo.

Sono i domani che non arrivano mai a darmi fastidio.

Per contattare Simone e per vedere i suoi lavori:

The END (of a man)

Eclissi Art Studio (instagram)

Chaos (on facebook)

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