Nel centro di Mendoza, in Plaza Chile, sventola la bandiera italiana. Questa è una delle tante piazze costruite in questa città a ridosso delle Ande per proteggersi dai numerosi e forti sismi che la distrussero a più riprese. Il più devastante fu quello del 1861, che rase al suolo il capoluogo del Cuyo. Negli anni successivi si decise di far fronte al problema, ogni tres cuadras (tre isolati) si doveva costruire una piazza per proteggersi in caso di terremoto. Le più importanti sono Plaza Independencia, Plaza Chile e Plaza Italia: la prima si chiama così per omaggiare la liberazione dell’Argentina dal conquistatore, la seconda e la terza per rendere giustizia all’enorme massa di migranti impiegati nella ricostruzione della città dopo il grande sisma: cileni, americani i primi; italiani, europei, ma non coloni questa volta, i secondi.

In Plaza Italia c’è una lupa romana, dedicata agli italiani che tornarono in patria a combattere la Grande Guerra contro il nemico austriaco, ma anche un monumento generico al migrante, al suo coraggio, alla forza di lasciarsi tutto alle spalle, alla sua storia che ha forgiato questo Paese e continua a plasmarne il presente. In Plaza Chile invece, tra gli alberi dalle grandi chiome verdissime e qualche palma, svetta il tricolore del consolato d’Italia. In quell’edificio entrai varie volte per cercare di portare avanti il progetto che l’Università per stranieri di Siena, insieme all’Universidad Nacional de Cuyo, ci aveva assegnato: promuovere la cultura e la lingua italiana. Fu lì che, insieme al console Polacco e ad altri componenti dell’università, ideammo il concorso “Italia fanfiction”: i partecipanti avrebbero dovuto descrivere, in un breve cortometraggio, l’italia di oggi decostruendo l’immaginario ereditato da abuelos e bisabuelos. Il punto era ed è proprio questo: cosa significa italianità in Argentina oggi? Quale idea hanno gli argentini del nostro Paese? E di riflesso, cosa pensiamo noi dell’Argentina?

Le storie nazionali si compenetrano continuamente, basti pensare che il 3 giugno è il día del inmigrante italiano per ricordare Manuel Belgrano, nato in quella data nel lontano 1770, fondatore della patria (argentina) ma figlio di un ligure della zona di Imperia; sì, perché i primi immigrati italiani che sbarcavano a Buenos Aires o a Montevideo non erano già “italiani” ma liguri, veneti, piemontesi e friulani, figli di una nazione ancora da fare, animati, forse, da sentimenti unitari e risorgimentali, ma caratterizzati da una forte connotazione locale che ancora esiste nell’enorme costellazione di associazioni regionali in Argentina. Insomma l’Argentina nasce anche grazie ad un italiano e l’Italia, per alcuni decenni, sia a fine Ottocento sia nel secondo dopoguerra, vive grazie alle rimesse degli emigrati nel nuovo mondo; ma limitarsi a ciò è nulla, il legame è fortissimo su tutti i piani: culturale, alimentare, linguistico.

A Buenos Aires e Mendoza i ristoranti, i bar e le gelaterie hanno nomi italiani: Nicolò, Buongiorno, Soppelsa, Perín, La Marchigiana… solo per citarne alcuni dove ho avuto il piacere (alcune volte di più, altre meno) di mangiare. E poi i piatti proposti: pizza, muzza, fugazza, fainá e le parole derivanti dalla nostra lingua: laburo, atenti, chau, buen día, fiaca, schiena dritta, solo per citarne alcune tra le più note.

Per chi fosse interessato ad approfondire la questione rimando a due letture stupende: Aguafuertes Porteňas di Roberto Arlt, per comprendere il contesto del crisol de culturas che caratterizza la Capital Federal immersa nel mélange linguistico del lunfardo del primo Novecento e Sobre héroes y tumbas di Ernesto Sábato per vivere la complessità della “ciudad babelica”, centro di una non ben definita quanto problematica patria, che di fatto distingue i cittadini soprattutto in termini di classe sociale e smitizza l’ideale romantico e cosmopolita di un’unione nazionale sorta da un pacifico e illuminato melting pot, concentrandosi principalmente sulle vittime dell’individualistico “sogno americano”, sui portatori di ideali anarchici e socialisti, sugli anziani che pensano incessantemente al paesello di provenienza e non riescono ad elaborare la ferita del desarraigo (sradicamento, distacco), su personaggi che indagano le pieghe della società e della psicologia ricordandoci i protagonisti dei romanzi di Dostojievski.

I primi italiani sbarcarono al quartiere Boca di Buenos Aires, in seguito a Puerto Madero, oggi sede del museo de la inmigración, prima casa del migrante: l’Ellis Island locale.  Qui potevano stare per la durata di cinque giorni, poi iniziava l’avventura che, quasi sempre, li portava a vivere nei conventillos, case di lamiera e cartone, oggi note ai turisti in quanto parte del celebre paseo de la boca, il caminito. I nostri avi erano considerati “untori”, “figli delle barche”, “puzzolenti”, ma anche trabajadores infaticables (grandi lavoratori) disposti a tutto pur di “fare l’america”. Il viaggio, generalmente di una durata compresa tra le due settimane ed il mese, avveniva sui cosiddetti “ospedali galleggianti” o “navi di Lazzaro”, veri e propri covi di malattie ed epidemie, come avvenne nell’imbarcazione Perseo nel 1886.

Il pregiudizio negativo viene espresso magistralmente in letteratura nei romanzi ottocenteschi En la sangre di Eugenio Cambaceres e Inocentes o culpables di Antonio Argerich. Il primo, il cui titolo esplicita già l’impostazione ideologica del testo, parla del povero Gennaro Piazza, un papolitano (termine dispregiativo che sostituisce napolitano) del barrio Boca, hijo de gringo (figlio di un italiano) che voleva ottenere le stesse possibilità e la stessa dignità dei creoli: il suo progetto fallirà in quanto la sua inferiorità è biologica, determinata da tare ereditarie ineliminabili. Il secondo invece solleva un problema fondamentale, quello del contributo degli italiani alla formazione dell’argentinidad: l’autore ne dà un giudizio assolutamente negativo, i gringos sono un pericolo per la nazione e come tali devono essere allontanati e privati dei diritti sociali e politici.

In un secondo momento, durante la grandiosa belle époque argentina, la reputazione degli italiani comincia a cambiare: gli hijos de inmigrantes formano ormai parte del tessuto sociale ed economico di questa nazione, la battaglia concreta e ideologica contro i creoli difensori della patria lascia spazio ad una realtà multietnica e a una quasi totale europeizzazione dell’Argentina; i nativos, i popoli originari, sono sempre più emarginati, impoveriti e messi ai confini della società dagli homini noves di sangue europeo. Il progetto di Sarmiento e Alberdi è attuato, la società argentina è stata quasi totalmente assorbita dai valori europei: perdita del rapporto diretto con la pachamama e delle radici contadine, privatizzazione dei terreni, urbanizzazione, individualismo, liberalismo, cristianizzazione, alfabetizzazione e corruzione morale (progetti chiaramente già avviati dagli spagnoli e dai gesuiti nei secoli precedenti). Da questo momento in poi gli italiani si “argentinizzano” e gli argentini si “italianizzano”, fondendo mate, pasta, pizza, gelato, parole in lunfardo e cocoliche; ciò che viene perduto quasi interamente è la lingua, le seconde e terze generazioni non parlano più italiano, anche perché si puntava ad un’integrazione totale, che passava dalla conoscenza perfetta dello spagnolo più che dalla conservazione delle origini, povere e lontane.

La svolta avviene dal secondo dopoguerra in poi: quando il flusso migratorio si inverte e non sono più gli italiani a emigrare in Argentina, Uruguay, Brasile e Venezuela, ma i latinoamericani e venire in Europa. Da quel momento la reputazione dell’italiano, dell’italianità e della lingua del “Belpaese” cresce, mostrando forse da un lato un limite culturale, cioé quello di adeguarsi sempre a chi, sempre secondo una gerarchia unilaterale della quale sfugge spesso la logica profonda, “è più avanti”, ma dall’altro un grande e rinnovato interesse per la propria provenienza, i propri avi ed in definitiva la storia dell’Argentina che, senza considerare lo strettissimo legame con l’Italia, non può essere veramente compresa.

I riferimenti letterari di questo periodo sono molti, mi limito a proporre l’imprescindibile Oscuramente fuerte es la vida di Antonio Dal Masetto, scrittore di origini piemontesi, trasferitosi in Argentina nell’immediato dopoguerra, a soli dieci anni d’età. Dopo aver passato tutta la vita a Buenos Aires, l’autore sente la necessità di elaborare la ferita del desarraigo servendosi dei ricordi personali, della nostalgia di un’Italia semplice, dove emozioni e paure si mischiano lasciando spazio ad una necessità fondamentale: ricordare chi siamo e da dove veniamo, per quanto questo sia difficile da ricostruire e doloroso da fare. Ecco il sentimento principale che anima la comunità italiana in Argentina dagli anni ’50 fino a qualche decennio fa; ora, nell’epoca della globalizzazione, con il cambio di paradigma mondiale, le arti devono ancora trovare il modo di esprimere il vincolo strettissimo tra questi due popoli, nonché metterlo in parallelo con le nuove realtà migratorie limitrofe e interne all’America Latina, per le quali l’Argentina non attira più europei quanto piuttosto peruviani, boliviani, venezuelani e paraguayani.

Tantissimi auguri a tutta la comunità italiana in Argentina.

 Feliz día del inmigrante italiano en Argentina!

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Venuto al mondo nell’anno della fine dei comunismi, sono sempre stato un curioso infaticabile e irreprensibile. Torinese per nascita, ho vissuto a Roma, a Bruxelles e in Lettonia. Al momento mi trovo in Argentina, dove lavoro all’università di Mendoza. Scrivo da quando ho sedici anni, non ne posso fare a meno. Per ora ho pubblicato diversi articoli, un breve saggio e un racconto, “Ovunque tu sia” è il mio primo romanzo.

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