Da febbraio a maggio scorsi sono state esposte a Firenze due grandi sculture di Salvador Dalí: l’Elefante spaziale, collocato nei pressi della stazione di Santa Maria Novella, e il Pianoforte surrealista in Piazza delle Belle arti, di fronte al Conservatorio Cherubini. La loro presenza era legata alla mostra tenutasi a Palazzo Medici Riccardi: Dalí Universe, conclusasi il 25 maggio, presso la quale è stato possibile ammirare le singolari sculture ideate dall’artista spagnolo, alcune sue acqueforti, e oggetti di design surrealista – tra cui sedie, divani e tavolini –, di stupefacente modernità se si pensa che furono realizzati negli anni ’20 e ’30 del secolo scorso, come il celebre divano le cui forme erano ispirate alle labbra di Mae West.
L’apparizione di queste imponenti sculture nel contesto urbano fiorentino può essere uno spunto per riflettere sul rapporto tra Firenze e il contemporaneo, il quale, come vedremo, ci risulterà per alcuni aspetti alquanto ambiguo e problematico.
Sebbene in città si tengano importanti eventi connessi alle nuove ricerche, come la Biennale – che quest’anno vede la sua nona edizione diretta dallo storico dell’arte Rolando Bellini -, il Florens, Fabbrica Europa ecc., si avverte ancora un atteggiamento di vaga diffidenza verso le tendenze più recenti. Si ricordi in proposito la scultura dei fiumi Arno e Hudson donata a Firenze dall’artista americano Greg Wyatt che, collocato nei pressi di Palazzo Vecchio, fu poi trasferita in Piazza Giuseppe Poggi. In altri casi questi tipi di eventi hanno avuto in città un carattere programmaticamente effimero, e un esempio recente è rappresentato dalla titanica installazione di Mimmo Paladino in Piazza Santa Croce. L’opera, costituita da grandi blocchi di marmo collocati a croce su cui erano innestate curiose sculture in bronzo – tra cui uccellini, un mazzocchio e un dodecaedro solido -, è rimasta in loco dal 3 all’11 novembre del 2012, attirando molta curiosità e alcune critiche (Philippe d’Averio in primis).
Si ha dunque l’impressione che il contemporaneo sia trattato come un ospite ‘scomodo’, per cui la sua presenza, percepita dopo un certo periodo quale corpo estraneo, debba essere discretamente allontanata. Oppure, molto più verosimilmente, esso viene sfruttato e sfoggiato per conferire alla città una patina di apertura e di aggiornamento, più apparente che sostanziale. Potremmo allora supporre che la collocazione permanente di un’opera contemporanea sarebbe totalmente inattuabile, o quantomeno difficile, dato che verrebbe vista come un atto di lesa maestà all’intoccabile panorama architettonico del centro storico di Firenze – cosa che invece si verifica normalmente in altre grandi città europee.
Ampliando la questione e facendo una riflessione più generale potremmo constatare che sebbene sia passato circa un secolo dalle avanguardie storiche, e un’ottantina d’anni dall’inizio dell’avventura surrealista, il loro sogno, benché tradito, incompreso, frainteso, e mercificato, sembra ancora rispecchiare in parte l’orizzonte delle aspirazioni e dei dubbi della nostra società, e quindi ancora capace di attrarci. L’arte del presente, inesorabile erede dell’avanguardia, malgrado abbia raggiunto esiti assolutamente spiazzanti e discutibili, sembra rivelarci una parte celata di noi: è spia delle nostre inquietudini, delle nostre angosce rimosse e della nostra condizione esistenziale. Nonostante tutto essa suscita in noi curiosità e interesse, ma ciò non ci esime tuttavia dal discernere casi estremi per cui è lecito chiedersi se si tratti di arte o meno.

Queste sculture che si sono stagliate per pochi mesi sul cielo e sul paesaggio di quest’antica città – invasa da turisti affamati di un passato imbalsamato ridotto ormai a mera fonte di lucro – sono apparse come presenze evocative ed affascinanti, quasi dei fantastici miraggi. Al surrealismo, e all’arte di Dalí in particolare, va di fatto riconosciuta questa potenza e libertà di immaginazione incurante dei vincoli agli schemi convenzionali, come stimolo al nostro bisogno di deragliare dalla realtà, e sul piano sociale come rottura con la tradizione e col conformismo – si rammenti a proposito il carattere anticlericale del movimento.
La scultura che è stata installata davanti al Cherubini, fusa negli anni ’80 e alta 5 metri, può risultare per certi aspetti mostruosa e kitsch, a causa di quelle gambe da ballerine di can-can mutilate che fanno da sostegno al pianoforte, assimilandolo così a un assurdo ibrido. Sullo strumento una figura aurea, forse l’incarnazione della musica, si slancia verso l’alto come in un anelito di assoluto.
Più suggestivo ed arcano sembra apparire invece l’Elefante spaziale, alto ben 8 metri: una figura che Dalí aveva già concepito nel dipinto del 1946 Le tentazioni Sant’Antonio. Quest’opera è l’incarnazione di un ossimoro, di un’aporia, di un sogno impossibile: le sottilissime e lunghe zampe, allontanatesi dalla terra, dalla materia e dalla logica, sostengono il corpo pesante dell’elefante, sulla cui groppa regge una piramide, elemento carico di simbologie. Una composizione che risulta pertanto precaria ed incoerente come le fantasticherie e le utopie umane, sempre alla ricerca di irrealizzabili mete.
Senza dubbio sono opere che hanno spiccato nella città, sia per la loro estraneità al contesto urbano che per la loro visionaria conformazione. Il fatto di essere le sculture di uno delle figure più rivoluzionarie dell’arte del Novecento non le ha risparmiate dall’essere state astutamente sfruttate per attrarre i turisti alla mostra in Palazzo Medici Riccardi, e per essere poi liquidate per sempre.

Sempre per legarci a un discorso sul problema del contemporaneo, questa volta da una prospettiva più generale e teorica, è utile segnalare la mostra che sta avendo luogo alla Strozzina (Palazzo Strozzi), e che durerà fino al 28 luglio. Troviamo che essa si contrapponga alla mostra antecedente, dedicata a Francis Bacon, in cui erano presenti opere disturbanti come i video di Nathalie Djurberg, giacché quella attuale ha come titolo ‘’un’idea di bellezza’’, una scelta che tuttavia suscita in noi dei dubbi e degli interrogativi.
Le opere infatti ci parlano di una bellezza incompleta, tormentata ed eclissata, che ha perso per sempre il suo valore sublimante. I personaggi dei dipinti del polacco Sasnal sono senza volto, e le loro sagome si ergono come spettri arresi all’inesorabilità di una natura muta e degradata. Le leggiadre farfalle del video di Chiara Camoni, girato in Irpinia nel 2005, muoiono lentamente uccise dal monossido di carbonio esalato dal terreno. Le donne del video di Vanessa Beecroft – il lavoro più suggestivo e di più alto valore – sono immobili, inquietanti nel loro sembrare carbonizzate a causa della tintura scura della pelle. La loro nudità è squadernata sui banchi su cui si vende il pesce al mercato ittico di Napoli (la location del video), e dunque metaforicamente ridotta a merce. Tra le modelle sono disposte alcune sculture di membra anatomiche che enfatizzano l’atmosfera di sfacelo e il senso di una bellezza frammentaria tramutata in orrore.
E’ ben noto che le opere fotografiche e i video della Beecroft sono essenzialmente basati su un incisivo messaggio di critica sociale concernente il ruolo della donna e il problema della mercificazione della sua immagine. La nostra lettura è fatta però da una prospettiva diversa, che tenta di fare un discorso più concettuale e speculativo.
La mostra organizzata dalla Strozzina, decisamente apprezzabile, è in grado con poche opere di toccare un nodo così appassionante e sempre attuale: se uno degli aspetti del contemporaneo è il superamento della ‘’categoria’’ della bellezza, esso però sembra creare in noi un dilemma. Abbiamo probabilmente nostalgia della bellezza, ma ci vergogniamo di ammetterlo. Ha senso categorizzare la bellezza e sentirla come qualcosa di ormai obsoleto e banale?

Attraverso questi due eventi molto diversi, come la collocazione delle sculture surrealiste e la mostra ‘’un’idea di bellezza’’, si è tentato di meditare su alcuni aspetti del contemporaneo, una sfera in realtà più complessa, giudicando con soddisfazione il primo caso e sollevando interrogativi più profondi grazie al secondo.
A poche settimane dall’inaugurazione della 55° edizione della Biennale di Venezia, non ci arrendiamo: continuiamo a interrogarci, sempre in modo critico e senza pretendere di formulare un giudizio immediato e definitivo, su questo problematico mare magnum che è l’arte contemporanea, la quale, sebbene risulti per certi versi geniale e di forte impatto, molto spesso ci lascia ancora interdetti, o comunque scatena in noi contrastanti riflessioni.

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