L’OPAC ha vinto il Premio Nobel per la Pace. La grande favorita era l’eroina pakistana Malala Yousafzai e l’assegnazione avrebbe fatto di lei la più giovane vincitrice dal 1901, anno dell’istituzione di uno dei premi più prestigiosi del mondo. Ma si sa le aspettative non vengono sempre rispettate ed il riconoscimento è stato assegnato all’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche. “For its extensive efforts to eliminate chemical weapons” è la motivazione della nomina.

L’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (opac) affonda le sue radici giuridiche nel Trattato sulla messa al bando delle armi chimiche firmato a Parigi nel 1993 ed entrato in vigore nel 1997. La prima guerra del Golfo e l’evidenza che Saddam Hussein avesse sviluppato uno dei più grandi arsenali militari al mondo, avevano spinto la comunità internazionale ad una profonda riflessione sul disarmo, riflessione che avrebbe portato ad una serie di trattati, codici di condotta, registri interrotti soltanto dopo l’11 settembre 2001. Dopo qualche anno di stasi, il tema del disarmo ha ripreso nuovamente impeto nell’agenda internazionale ed il Trattato sul Commercio d’armi, approvato lo scorso aprile, è l’apice di uno sforzo che si protrae all’interno dell’Assemblea Generale dal 2006.

L’opac non è un organo delle Nazioni Unite ma collabora e coordina le attività con quest’ultima. Il suo lavoro consiste nell’ispezionare l’avvenuta distruzione e non proliferazione di armi chimiche, favorendo la cooperazione internazionale attraverso l’assistenza nel raggiungere gli obiettivi prefissati e chiedendo uno sforzo ai singoli stati nell’implementare le norme previste dal trattato attraverso le normative nazionali.

Il Nobel per la pace nel 2013 è sicuramente una nomina d’attualità alla luce della crisi siriana.Tuttavia, come non sottolineare il lavoro svolto dall’organizzazione negli scorsi anni nell’ombra delle prime pagine dei principali quotidiani, con ispezioni in siti di produzione e stoccaggio sparsi in tutto il mondo. Per la seconda volta consecutiva il Comitato Norvegese ha deciso di assegnare il Premio ad un’entità collettiva quasi a sottolineare la necessità di uno sforzo necessario non a carico di singoli individui. Ancora una volta qualcuno potrà obiettare sulla bontà di questa nomina. Assegnare il Nobel per la Pace ad un’organizzazione del genere, dopo il massacro commesso in Siria con l’uso di armi chimiche, può sembrare una beffa e lasciare un sorriso quantomeno amaro sul viso dei più cinici. Tuttavia quella di oggi è una forte indicazione sull’indirizzo della politica internazionale. L’anno scorso la nomina dell’Unione Europea strideva con l’atteggiamento assunto da alcuni suoi membri durante la crisi libica. Quella nomina aveva sicuramente testimoniato la necessità di un maggiore sforzo di coesione e soprattutto l’invito all’Europa di farsi carico di temi di grande attualità.

Per questo motivo il Premio Nobel per la Pace negli ultimi anni sembra aver assunto il ruolo di propulsore e di indirizzo piuttosto che di riconoscimento per gli sforzi fatti dagli insigniti. Ciò non toglie che sia indubbio il fatto che l’Unione Europea abbia costituito quell’humus capace di garantire per sessanta anni la pace sul Continente, così come è innegabile l’encomiabile lavoro svolto dall’opac dal 1997 ad oggi.

Oggi si riporta alla ribalta il tema generale del disarmo e quello delle armi chimiche in particolare. Oltre il caso della Siria, in pochi sanno che ad oggi nessuno Stato ha portato a compimento quanto previsto dal Trattato entro le date stabilite. Myanmar ed Israele hanno firmato ma non ancora ratificato il Trattato sulla messa al bando delle armi chimiche, mentre Angola, Corea del Nord, Egitto, Somalia e Siria non hanno firmato né accettato quanto previsto dal trattato. Bisogna altresì constatare che il divieto di uso d’armi chimiche è ormai norma consuetudinaria, pertanto vietato sia in conflitti interni che internazionali. Quest’anno come quello precedente si chiedeva una maggiore sensibilità su alcuni temi, oggi imprescindibili. Si chiede che non vi sia immobilità nell’affrontare questioni di grande rilevanza. Uccidere civili o militari rappresenta sempre un abominio, ma causare la morte attraverso infinite atrocità e soprattutto in maniera indiscriminata rappresenta “the crime of the crimes”, il crimine dei crimini.

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