Il Malpensante presenta la prima edizione di “Creare e pensare la fotografia”, programma di alta formazione sull’immagine fotografica articolato in cinque workshop che si terranno a Cagliari dal 26 febbraio al 9 maggio. L’iniziativa è organizzata da Occhio, contenitore ibrido di esperienze artistiche e didattiche. Lorenzo Caleca ha intervistato per noi Luca Spano, ideatore del programma e direttore artistico esecutivo del progetto.

Bene Luca, è un piacere scambiare due chiacchiere con te. Inizierei in maniera molto classica: ti va di presentarti e presentare Occhio ai lettori del Malpensante?

Sono un artista visuale, nato dalla fotografia e cresciuto nella multidisciplinarità. Dico “nato” perché tutti i miei passi iniziali sono stati mossi nel campo fotografico, sia artisticamente che lavorativamente. L’immagine è rimasta un caposaldo della mia ricerca, diventata con il tempo più un punto di partenza che un outcome. Uso l’immagine, non solo producendola o appropriandomene ma come oggetto di ricerca. Mi interessa la sua architettura, il suo ruolo nella creazione del nostro immaginario e la sua materialità contemporanea. La domanda della mia ricerca ruota attorno a cosa è un’immagine, e più lavoro, meno so rispondere. Questo alimenta la mia curiosità.
Ho vissuto per lungo tempo lontano da dove sono nato, con tappe principali Roma, Londra e New York. In queste città mi sono specializzato in comunicazione e arti visuali, studiando in varie università. Allo stesso tempo ho lavorato in molti settori della filiera culturale e artistica, unitamente ad esperienze di insegnamento in antropologia visuale, arte e fotografia. Per varie coincidenze e situazioni globali, dopo 20 anni di peregrinazioni, sono rientrato per trascorrere un periodo a Cagliari, dove sono cresciuto. Va da sè che un avvicinamento temporaneo si sta trasformando in una permanenza duratura.
Questo mi ha portato ad attivare delle operazioni culturali in Sardegna, che passo dopo passo prendessero un respiro internazionale. Così con l’esperto di comunicazione Maurizio Lai, il team dell’ente Orientare e il fotografo Alessandro Toscano, abbiamo lavorato per dare vita ad un’operazione di alta formazione nel campo delle arti visuali, con particolare interesse nella pratica photobased. La successione di eventi è stata poi lineare, è nato il gruppo di lavoro OCCHIO, che ha generato “Creare e Pensare la Fotografia”, un ciclo di 5 workshop con 5 topic distinti e 10 docenti, tutti professionisti del settore. La didattica di ogni workshop nasce dalla sinergia delle due figure coinvolte nel guidarlo, un curatore ed un artista. Una didattica di tipo orizzontale estremamente inclusiva, si unisce a forti momenti di aggregazione con pranzi comunitari negli stessi luoghi di insegnamento, bellissime location museali cagliaritane. Dei fine settimana intensivi dove classi di dimensioni ridotte hanno la possibilità di passare del tempo di qualità con colleghi ed esperti del settore. Per quanto sono uno degli organizzatori, quindi fazioso, credo che la formula adottata sia qualcosa di davvero speciale.

Tra qualche giorno avrà inizio il ciclo didattico da voi organizzato “creare e pensare la fotografia”.
Una cosa che mi ha colpito molto leggendo il vostro comunicato è l’approccio diretto che avete sin dalle prime righe: si parla subito di “immagine visuale” e non solo di fotografia, e si nota un approccio trasversale non rivolto solo ai “creatori” dell’immagine ma orientato anche anche agli addetti ai lavori, in questo caso i curatori. Un approccio diverso rispetto ad altre esperienze didattiche di fotografia. Come mai questa scelta?

La scelta è doverosa. Il lavoro artistico è fatto da molte figure. L’artista è una delle componenti in questa alchimia, ma la formula ha necessità di tanti ingredienti per essere efficace.
Questo primo ciclo di workshop è diretto principalmente a fotografi e artisti che vogliono ampliare la loro pratica, vedere nuove strade attuative, mettersi in discussione per crescere. Ma nulla toglie che in un sistema ibrido come quello che abbiamo realizzato, persone con altri interessi lavorativi non possano arricchire la loro esperienza attraverso la nostra proposta. Per far ciò troviamo importante dare voce a molti punti di vista, a figure con competenze diverse ma interrelate fra loro. Per questo oltre ad artisti abbiamo publisher, curatori, critici, direttori di museo. Mi spingo a dire che questo elenco non è esaustivo per coprire la ricca filiera dell’arte. Ci sono una serie di figure del lavoro artistico che spesso non vengono valorizzate come dovrebbero. Senza voler fare un elenco esaustivo potrei citare gli art handler, i designer di mostre, i corniciai, i progettisti culturali. Tutte figure che devono avere una preparazione specifica nel campo per fare bene il loro lavoro, ma che spesso non vengono valorizzati e considerati quasi superflui. Molto del lavoro artistico è anche nelle loro mani. La valorizzazione di un’opera è un lavoro di concerto, non è solo frutto dell’artista.

Una rosa di nomi veramente vasta e mirata per i docenti, ti va di presentarceli e illustrarci come si svolgerà il tutto? Quali sono stati i criteri per la scelta dei relatori?

Come ti accennavo, abbiamo creato un programma che non pretende di essere completo, ma tocca vari topic relativi a fotografia e immagine. I criteri nella scelta dei docenti sono stati le loro competenze lavorative, la loro esperienza e non ultima la loro ricerca personale, i loro interessi.
Quest’ultimo lato è molto importante per dare la possibilità ai docenti di trasmettere quello che verrebbe definito come la loro passione, ma che mi piace pensare come una sana ossessione.
Abbiamo Giangavino Pazzola, curatore indipendente che tra le tante esperienze lavora a Camera a Torino, in tandem con il fotografo Alessandro Toscano con lunga esperienza in campo editoriale e ricerca paesaggistica. Loro parleranno dell’archivio di un fotografo, della ricchezza che contiene e di come possa essere utilizzato per creare lavori inediti.
Sonia Borsato è critica dell’arte ed insegna all’Accademia di Sassari. Lei lavorerà con la fotografa documentarista Myriam Meloni. Sonia fa una grande ricerca sul corpo e Myriam porta avanti lavori a lungo termine, con una forte presenza umana e sociale. Insieme condurranno un workshop sul ritratto.
Antonella Camarda è direttrice del Museo Nivola e professoressa di arte contemporanea, e sarà in duo con la fotografa Valeria Cherchi, che lavora su progetti a lungo termine sul non detto, che intrecciano testo e immagini. Insieme condurranno un workshop sulla relazione tra fotografia e territorio, focalizzandosi sull’importanza della ricerca.
Federica Chiocchetti è curatrice indipendente, scrittrice e fondatrice della piattaforma Photocaptionist, Anya Jasbar è una artista e publisher con la sua bellissima casa editrice Ahorn Books. Tratteranno il tema dell’editoria fotografica e del ruolo delle parole in fotografia.
Infine abbiamo Francesca Marcaccio Hitzeman, curatrice indipendente e scrittrice con base ad Honk Kong, e Luca Spano, di cui sapete già abbastanza. Il nostro workshop esplorerà le potenzialità progettuali e realizzative che si ottengono spostando il paradigma dalla fotografia al fotografico.

Oltre ai relatori, nel comunicato stampa spiccano tra le partnership la Fondazione di Sardegna, Ars Condivisa e l’Assessorato al Turismo del Comune di Cagliari, che hanno contribuito attivamente alla realizzazione del progetto attraverso la messa a disposizione di borse di studio per i partecipanti. Un approccio diverso dai soliti patrocini istituzionali, quasi più mecenatistico… vorrei osare dicendo che è un approccio più “estero” rispetto alla sovvenzione di attività culturali.

Assolutamente, condivido le tue parole. Le istituzioni hanno creduto fin da subito nella nostra linea progettuale e lo hanno fatto adottando una politica basata sulla partecipazione tramite gesto. La modalità della borsa di studio è molto interessante, è una azione più che un contributo, premia direttamente il candidato valorizzando la sua figura. Ha sicuramente un sapore di mecenatismo, che siamo felicissimi stia venendo adottato dalle istituzioni nostrane. A livello di immagine valorizza tutti gli attori coinvolti, sottolineando la meritocrazia dell’assegnazione della borsa. Infatti, nel concetto stesso di borsa è implicita l’assegnazione attraverso una selezione su base di vari criteri.
Abbamo anche la bella notizia che oltre a Fondazione di Sardegna, Ars Condivisa e Comune di Cagliari che hanno offerto 6 borse per l’intero ciclo didattico, abbiamo stretto una nuova partnership con la Fondazione Sardegna Film Commission, che darà un sostanziale contributo logistico al progetto.

Quasi cento candidature ricevute e valutate dalla vostra giuria, non solo dall’italia ma anche dall’estero, per un laboratorio che ha la caratteristica di svolgersi in una realtà particolare: parlavamo qualche giorno fa della scelta di voler presentare la Sardegna, un contesto isolano, nella scena fotografica nazionale. Quindi un tentativo di svecchiare un’immagine prettamente “arretrata” del territorio presentando una proposta ambiziosa e dai caratteri nuovi. Non vi spaventa la possibilità che una visione così innovatrice sia fraintesa?

Devo dirti no, o meglio, è chiaro che ogni volta che si fa qualcosa c’è chi la capisce e chi no, c’è chi si incuriosisce per il nuovo, c’è chi ne viene spaventato. Insomma, non si vince mai del tutto. Il nostro goal non è vincere, ma instillare un tarlo, alzare l’asticella della conversazione sull’arte visuale mettendo in relazione la comunità artistica, le istituzioni e l’ambiente internazionale.
Non ne facciamo un discorso di arretratezza, ma di possibilità e offerta. L’insularità, come concetto, porta dentro di sé pregi e limiti. Ci sono molte ragioni per cui alcune persone, per quanto dedicate, perdono di vista le possibilità di carriera in questo campo o più semplicemente non hanno i mezzi per accedervi. Spesso sono fattori personali e culturali, ma anche economici. Andare a cercare possibilità all’estero per formarsi, vista la carenza sul territorio, è qualcosa che non tutti possono fare, pur desiderandolo. Non è solo un discorso di volontà, ma di accesso a risorse. Io per primo mi sento un privilegiato, perchè in qualche modo ho avuto la volontà e la possibilità di intraprendere un percoso ricco. Non tutti sono fortunati, o non tutti hanno la forza da soli di fare certe scelte.
OCCHIO vuole lavorare sul territorio per aiutare la riduzione di questo gap, con un’offerta che porti le possibilità sul territorio stesso. La costanza, la dedizione, l’idea di professionalizzazione sono fondamentali da apprendere per un artista, specialmente se vuole essere competitivo sulla scena contemporanea. Per questo occorre apprendere strumenti specifici. Noi vogliamo facilitare questa presa di coscienza, provocando, e suggerendo solo l’inizio delle risposte. Poi starà al singolo impegnarsi e proseguire. Di certo però, tramite attività come questa, potrá muoversi con una comunità alle spalle. Grande punto di partenza.

Ambizioso anche il percorso quasi scolastico che proponete, affidato a concetti trasversali che vanno dal creare l’immagine alla sua presentazione, fino alla creazione di un pacchetto artistico completo; il tutto affidato a metodologie classiche come la presenza, ridotta e distanziata vista la situazione in cui ci troviamo, e l’inserimento di momenti di socialità. I ragazzi quindi si confronteranno non solo con la teoria ma con una vera e propria “maieutica”. Come è uscita questa idea?

Non l’avevamo vista in termini di maieutica, ma siamo assolutamente aperti a definirla così. Quello che desideriamo è fornire strumenti, stimolare confronto e creare comunità artistica. Tutti questi aspetti devono poi essere presi e reinterpretati dai partecipanti. Il lavoro finale può e deve venire fuori solo da loro stessi. Si parla di ricerca, qualunque essa sia. La propria ricerca. Ognuno deve usare gli input esterni per inquadrare sempre meglio quello che vuole osservare, quello di cui vuole parlare e il modo con cui farlo. Ognuno di noi possiede una propria individualità, sarebbe folle negarla. La ricerca vi si lega, va da sè che ognuno la deve coltivare a proprio modo.

Il nostro scopo è provocare un meccanismo a catena di piccoli cortocircuiti che diano costante linfa vitale al pensiero e alla pratica artistica di ogni singolo autore. Per tornare indietro alla tua domanda, l’idea nasce da una semplice quesito: come far sì che a fine workshop i partecipanti si alzino con quella che definirei una confusione generativa in testa? Quel momento in cui si vede la potenzialità di alcune idee e si mettono in discussione altri assunti consolidati? Quei momenti nella pratica artistica sono quelli che ti portano a continuare il tuo percorso.

Una volta concluse le lezioni, che figura vi aspettate di aver formato? Come pensate che potrebbe presentarsi nella scena fotografica? Pensate che una formazione così “variegata” faciliterà l’inserimento o potrebbe essere una forma di barriera rispetto a percorsi classici?

La formazione che offriamo attraversa vari stadi e tocca vari temi, dai classici ai contemporanei. Non è possibile dividerli, sono fortemente connessi. Personalmente penso che un libro fotografico come The Pencil of Nature di Henry Fox Talbot del 1844 sia un libro estremamente contemporaneo, ancora innovativo. Quello che vogliamo fare con i nostri workshop è stimolare crescita, curiosità e professionalizzazione. Con quest’ultima parola non mi riferisco solamente all’apprendimento di skills tecniche, ma alla creazione di una consapevolezza del proprio ruolo come artista e della conversazione di cui il proprio lavoro fa parte. Come detto in precedenza, i workshop sono condotti da più figure e aperti a più figure. Sono un percorso di arricchimento, che deve facilitare i partecipanti ad inquadrarsi all’interno di una comunità artistica locale, nazionale e internazionale.
Non vogliamo creare delle figure, ma facilitare la creazione di voci e idee che neppure noi conosciamo. Come detto il fine generale è l’arricchimento e la possibilità di relazioni con esperti internazionali. Ma non vogliamo che questo sia il fine prestabilito, ognuno deve creare il suo percorso all’interno dei workshop. Percorsi in between la propria ricerca e l’offerta formativa stessa.

Secondo voi esiste una scena fotografica italiana? Si può parlare di “scena” o siamo più davanti a una galassia di nicchie trasversali unite da interessi più o meno stabili?

La fotografia, l’arte in genere, muta a seconda dei tempi. Il contesto culturale diventa un contenitore che plasma tanti aspetti di quello che accade al suo interno. Come per i singoli esseri umani, tutti diversi tra loro, non credo in una scena italiana. Temporalmente attraversiamo dei movimenti, che oggi sono più a livello globale che locale. Non penso quindi ci sia una scena. Piuttosto vediamo una ibridazione sempre più forte e costante di media, linguaggi e pensieri. Cosa che non può che essere un bene per l’avanzamento e la messa in dicussione di qualsiasi mezzo. Si parla tanto di post-fotografia, se vogliamo dare un nome a questo periodo. Ma forse, più che parlare di generi e scene, è più importante discutere su cosa la fotografia può fare. E a questo proposito consiglio l’ultima uscita di Foam Magazine, in Limbo, che si interroga proprio su questo. Quindi non categorie ma azioni.

Ci sono realtà italiane a cui strizzate l’occhio o con i quali siete in buoni rapporti? Qualche realtà a cui vorreste avvicinarvi o con cui sperate in futuro di collaborare?

Ci sono molte bellissime realtà in Italia. Al contrario di quanto si pensi, c’è un gran movimento attorno alla cultura visuale. Soffriamo del fatto che ancora la fotografia in Europa arranca ad essere considerata alla stregua di tutti i metodi espressivi, vive ancora delle volte in una sorta di peccato originale del mezzo stesso.
Ci sono bookshop, piccoli laboratori, scuole di fotografia, associazioni culturali e qualche galleria che si sta specializzando. Ma anche istituzioni e bei festival. Mi sembrerebbe riduttivo fare dei singoli nomi. Quello che crediamo è che qualunque cosa si faccia per la cultura visuale sia benefico per l’accrescimento dell’industria culturale che gli ruota attorno. Industria ancora piccola, se paragonata ad altri luoghi nel mondo.
Abbiamo il potenziale, moltissime persone in gamba e tantissimi artisti. Ci serve solo rendere efficente il sistema.

Un’ultima domanda: la vostra offerta è chiara ed è indirizzata ad un pubblico preciso, ma volendo rivolgerci ad un pubblico più ampio cosa consigliereste a chi si avvicina alla fotografia a tutte le età proveniento anche da contesti diversi e non accademici? Esistono dei limiti?

Io consiglio sempre una cosa: essere curiosi. Le possibilità per alimentare la curiosità sono poi infinite. Bisogna farsi domande a cui non si sa rispondere, e molto spesso sono le più banali, quelle che diamo per scontate.
E poi come si dice, la destinazione non è l’arrivo, ma il viaggio stesso.

 

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